Nel momento in cui il primo governo di destra della storia
repubblicana è nella pienezza dei suoi poteri avendo ottenuto la fiducia del
Parlamento, momento che per un beffardo destino coincide con i cento anni da
quella marcia su Roma che portò Benito Mussolini ad aprire la lunga e dolorosa
pagina fascista della nostra storia, si chiede a Giorgia Meloni di fare i conti
con il passato.
Basterebbe che il presidente del Consiglio facesse i conti
con la sua cultura politica, domandosi se il suo bagaglio è all’altezza delle
tremende sfide che abbiamo di fronte. E se il suo mondo è in grado di dar vita
ad un moderno partito conservatore, di stampo liberale ed europeo, che al
momento non è.
Ogni nuovo governo afferma ossessivamente di voler marcare
una radicale discontinuità con quello precedente, persino quando, come nel caso
dell’ineffabile avvocato Conte, è lo stesso primo ministro a guidare due
esecutivi di maggioranze diverse. Nessuno si è ancora posto il problema di
voler produrre una vera discontinuità con quella che, per colpa della maledetta
semplificazione mediatica, abbiamo impropriamente chiamato Seconda Repubblica.
Con la stortura che l’ha originata, la
forzatura giudiziaria chiamata Mani Pulite (un nome che, rileggendo la storia
personale dei magistrati che l’hanno incarnata, fa ridere e piangere allo
stesso tempo) e con le storture, anche
istituzionali oltre che politiche e culturali, che ha prodotto. Se è vero, come
è vero, che dal 1992 in poi si è aperta e mai chiusa una fase di transizione
verso una non definita, se non per slogan, nuova Repubblica, allora Giorgia
Meloni ha davanti a sé due alternative: il cambiamento whatever it takes o
quello finto, posticcio. Nel primo caso potrà anche sbagliare e ricevere le critiche
anche da chi non ha pregiudizi, ma sicuramente entrerà nei libri di storia per
un motivo ben più rilevante che essere la prima donna a sedere sullo scranno di
palazzo Chigi; nel secondo caso, resterà inchiodata alla cronaca e il suo tempo
finirà presto come quello di tutti i suoi predecessori e avversari, il cui
consenso si è velocemente consumato per colpa di promesse irrealizzate (e
irrealizzabili) e di una popolarità effimera, creata mediaticamente nonostante
la loro assoluta inconsistenza e le molte contraddizioni.
Ovviamente io auspico che la già dimostrata grinta politica
e personale e la sua indubbia vocazione alla leadership inducano il primo ministro
a scegliere la prima opzione. Evocando una trasformazione in senso
presidenziale della Repubblica, il presidente del Consiglio ha già detto di
volersi avventurare sul terreno delle riforme costituzionali, che sono appunto
lo strumento principe per chiudere la transizione infinita che dura da tre
decenni.
Naturalmente essere a favore del riassetto istituzionale del
Paese non significa per forza essere tifosi del presidenzialismo del quale peraltro esistono varie forme, da
quella piena americana a quella “semi” francese fino all’elezione diretta del
presidente del Consiglio che propone Renzi. La vera questione sta nel fatto che
in questi trent’anni la Costituzione è stata scassata dalla disarticolazione
del rapporto tra potere politico e potere giudiziario; dall’intossicazione
prodotta da leggi elettorali pessime e
che comunque avrebbero richiesto, nel passaggio dal proporzionale al
maggioritario, altre riforme istituzionali abbinate all’affermarsi dei partiti
personali e del leaderismo che trasferisce il consenso dalle idee alle persone;
dalla disgraziata riforma del titolo V che ha prodotto un federalismo
straccione; dai perniciosi tentativi, per fortuna sventati dai cittadini nei
referendum confermativi, di riformare la Carta a colpi di maggioranza anziché
in un contesto condiviso, brandendo le riforme come arma nucleare nella guerra
del bipolarismo militarizzato.
Per questo, cara Meloni, la vera “rupture” sta nel proporre
una modalità costituente per porre rimedio a tutto questo e chiudere finalmente
la transizione infinita. Un’Assemblea deliberante composta da un centinaio di
membri eletti in un unico collegio nazionale con il sistema proporzionale puro,
incompatibili con il ruolo di parlamentari, e arricchita da una ventina di
esperti nominati dal Capo dello Stato, che chiuda in un anno i suoi lavori
(sistema elettorale compreso, che va costituzionalizzato e reso omogeneo per
tutti i livelli della rappresentanza e per tutto il territorio). Chi, se non ai
vincitori, tocca proporlo? Sgombrando il campo dalle polemiche sulle
intenzioni, vere o presunte che siano, di voler forzare la mano forti di una
maggioranza parlamentare che, proprio in virtù delle distorsioni che si devono
correggere, non è maggioranza nel Paese. Così come nessuna coalizione
vincitrice delle elezioni di questi ultimi tre decenni è mai stata.
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