È evidente a chiunque, fin dalla campagna elettorale, che il
destra-centro non sia mai stato una coalizione, ma solo un cartello elettorale.
E che avendo vinto nelle urne, ma non nel Paese, come tale, ora fatichi a trasformarsi in
alleanza di governo. Tra l’altro, a complicare le cose, si aggiunge il fatto
che c’è una forte disomogeneità tra la quantità di seggi conquistati dai tre
soci del cartello e l’effettiva quantità dei loro voti. Nessun dubbio che debba
essere Giorgia Meloni la candidata alla presidenza del Consiglio, ma l’intesa
si ferma lì. Oltre è da considerarsi un tutti contro tutti, senza esclusione di
colpi. Uno scontro la cui dimensione è apparsa chiara in occasione della nomina
dei presidenti di Camera e Senato, scelta che ha impropriamente incrociato
quella per riempire le caselle del governo nascente. La presidente in pectore,
salvo l’errore di abbandonare troppo presto la strada di assegnare una delle
due camere alle opposizioni, cosa che tra l’altro le avrebbe messe in
difficoltà, divise come sono, ha tenuto giustamente una linea fatta di cautela
formale e comunicativa e di risolutezza sostanziale. Atteggiamento di fronte al
quale Salvini ha abbozzato, pur essendo il principale indiziato di chi avrebbe
messo i bastoni tra le ruote di Meloni, e Berlusconi, per mezzo della sua
ventriloqua Ronzulli, ha invece perso la testa. La conseguenza è stata la
sciagurata idea, autolesionista, di non votare La Russa al Senato, con il
risultato di sancire l’irrilevanza politica di Forza Italia e celebrare
involontariamente la leadership della leader di FdI, nel momento in cui in una
notte si sono trovati ben 17 voti dell’opposizione per consentire, alla prima
chiama, l’ascesa del vecchio esponente della destra allo scranno che lo
battezza numero due della Repubblica dopo Mattarella.
L’operazione porta l’inconfondibile impronta di Renzi (senza
Calenda) e dei renziani del Pd, anche se nessuno potrà mai provarlo. Essa,
presenta due valenze positive conclamate e una potenziale. La prima è che ha certificato
inequivocabilmente che siamo in regime di destra-centro e che l’alleanza è
talmente fragile che rischia di avere il destino già segnato. Sorte che la
successiva compattezza sulla nomina di Lorenzo Fontana a presidente della
Camera, peraltro relativa, visto che il leghista filo-Putin ha preso 222 voti,
14 in meno di quanto la maggioranza dispone sulla carta (sono 237, ma un
deputato di Forza Italia era assente giustificato) non ha certo modificato. Sia
per l’inadeguatezza del nominato, sia
per la spaccatura che l’astensione su La Russa ha provocato dentro il gruppo
parlamentare forzista. Non è un bene in sé, perché il Paese ha un disperato
bisogno di una guida sicura, ma visto che è così tanto vale che si sappia fin
dall’inizio.
La seconda valenza è che c’è una parte delle opposizioni, e
neppure di trascurabile entità, che è pronta e capace di sparigliare le carte.
In queste ore si è assistito a dure reprimende nei confronti dei “traditori”
del centro-sinistra. Ma la coalizione detta di centro-sinistra non esiste altrimenti
si sarebbe presentata come tale alle elezioni, avendone anche un vantaggio nei
collegi uninominali e dunque chi ha tradito chi? La mossa ha messo a nudo in
modo plateale le spaccature del fronte di governo, e questo politicamente non è
un risultato trascurabile per chi sta all’opposizione. La politica è anche
questo, inutile fare le vergini violate.
L’Armaggeddon politico per usare linguaggio internazionale,
in Italia ha un nome, Berlusconi, e la prima mina vagante, l’ha buttata e
corrisponde al nome di Ronzulli
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