La fotografia,
molto spesso, è come qualcosa di intimo e da tenere, ben lontano da occhi
indiscreti. Mario Cresci, Il fotografo ligure, che trascorse gran parte della
sua vita in Basilicata, lasciandoci struggenti immagini della vita contadina e,
perfino, del ciclo delle stagioni, scandito dal duro lavoro e dal tipo di
coltivazione, quando andava in giro per la Basilicata, o nel cuore del Salento
con la sua macchina fotografica, i contadini rifiutavano di farsi fotografare,
perché ritenevano che le foto potessero rubare loro una parte dell’anima. E,
tuttavia, Mario Cresci, molti ritratti fotografici riuscì a farli, inventando
quella che Pasolini definì la fotografia antropologica.
Oggi, in tempi
di amministrative, in giro per le vie cittadine, ci si sente osservati, in
tempi elettorali, da tutti quei manifesti elettorali. Sorrisi ammiccanti, pose
da salotto, faccioni che neanche Filippo Lippi o Fernando Botero avrebbero
saputo ritrarre meglio. Quei sorrisi forzati, poi, stampati su visi ridanciani e
inespressivi, riescono a dare un profondo senso di malinconia, e, perfino, un
senso di colpa, quasi che essi, i candidati, avessero bisogno di noi, dell’unico
ed insostituibile voto per raggiungere la meta della loro esistenza. Inoltre,
quella serie di santini con le braccia rigorosamente conserte, ad osservare,
maliziosi o severi. E poi le scritte, gli slogan, che promettono una vita
migliore, magari senza più le ciminiere dell’acciaio e i miasmi nauseabondi
della raffineria. Che la semplice crocetta sul nome, sarà in grado di schiudere
visioni di viali alberati, profumi di tigli, di ippocastani e di gelsomini,
traffico ordinato e incolonnato e senza più safari per pedoni e per ciclisti.
E, palazzi gentilizi sapientemente restaurati, recupero di quelli lasciati per
decenni a sbriciolarsi, rinascita di una città migliore. E torna in mente quel
manifesto elettorale di Giovannino Guareschi quello di Don Camillo e Peppone,
dove aveva disegnato un elettore che, nella cabina elettorale, si accingeva a
dare il voto, ricordandogli che lì, nel segreto dell’urna “Dio ti vede, Stalin
no”. E si direbbe oggi nemmeno Vladimir Putin. O, sempre quando si votava
perché l’Italia scegliesse l’Occidente o il Cremlino, con i parroci che scesero
direttamente in campo, con un manifesto con il simbolo dello scudo crociato
della Democrazia Cristiana e la scritta “Metti la tua croce, dove già c’è n’è
una”.
Ora sono spariti
o quasi i simboli dei partiti, lo scudo crociato, la falce e il martello, il
garofano, l’edera, la bandiera italiana, le iconografie elettorali si sono
personalizzate, ma tutte, proprio tutte, fanno, però, sapere di essere saliti
sul carro di qualsiasi Auriga. Molti dei candidati, non hanno avuto neppure
bisogno di passare dal fotografo o, per essere più moderni, da una primaria
agenzia pubblicitaria, in quanto i loro volti sono ciclici, si ripresentano ad
ogni tornata elettorale. Magari con promesse nuove. E fra poco li vedremo sui
taxi, sul retro dei bus urbani, e, perfino, su carri allegorici, dei maestri cartapestai
leccesi, di Massafra o di Putignano. I sociologi della comunicazione, avvertono
che gli slogan sui manifesti elettorali, devono essere efficaci e in sintonia
con la riproduzione fotografica, perché il manifesto è lo spazio dove si
scambiano i discorsi contraddittori tra immagini e scrittura.
Commenti
Posta un commento