La lingua è la base del pensiero, più il linguaggio è povero, più il pensiero scompare.
Le parole sono l’arma più potente che abbiamo, sono il mezzo attraverso il quale comunichiamo i nostri sentimenti, i nostri pensieri, con cui diamo un nome alle nostre paure, alle nostre sensazioni, ai nostri dubbi. Come possiamo comunicare e incidere sulla realtà, se non abbiamo parole per tradurre i nostri pensieri? Come possiamo far valere la nostra voce, se la nostra voce è muta perché non ha parole dalle quali attingere?
Il congiuntivo sta scomparendo dal nostro parlato. Il congiuntivo esprime una situazione ipotetica, è quindi il modo per formulare delle ipotesi, delle supposizioni, delle teorie. Pensare e parlare utilizzando sempre e soltanto l’indicativo, induce a ragionare soltanto in termini di certezze, a eliminare le supposizioni e i dubbi dal nostro modus mentale.
La nostra lingua abbraccia una visione meccanica della realtà, che privilegia la rapidità, la sinteticità, l’immediatezza, valori presi in prestito dal mondo dell’economia…
La cosiddetta sinteticità, oggi tanto osannata in ambito giornalistico, ha comportato una banalizzazione di questioni complesse: si scrive e si pensa in termini di bianco o nero e ciò esclude a priori tutte quelle complessità, quelle sfumature che non si prestano ad essere racchiuse in poche righe ad effetto. I testi non solo soltanto scritti male ma adottano un linguaggio infantile, offensivo per la scarsa considerazione che dimostrano di avere nei confronti del lettore medio.
Che cosa possiamo fare? Curare la lingua, evitare inutili anglicismi, privilegiare giornali che proteggono la qualità dei loro scritti e concederci il tempo necessario perché alcune cose hanno bisogno del loro tempo, tempo per essere spiegate, apprese, assaporate, interiorizzate.
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