Promuovendo un riconoscimento pubblico delle identità basato sulle differenze tra gruppi sociali in forza dei principi di libertà e non discriminazione, il fenomeno delle identity politics ha inciso in modo significativo sull’interpretazione dei diritti fondamentali e sulla teoria classica del costituzionalismo liberale. Intersecandosi con l’adozione di costituzioni rigide che contengono lunghi cataloghi di diritti e con la proliferazione sovranazionale di carte dei diritti direttamente applicabili, il fenomeno delle identity politics si è così legato allo sviluppo del neo-costituzionalismo, ossia una teoria del diritto costituzionale liberale che enfatizza il ruolo della judicial review (nazionale e sovranazionale) nella tutela dei diritti al fine di ridurre le inuguaglianze e i privilegi diffusi nelle nostre società democratiche (Hirshl 2007). In questo modo, la teoria del neo-costituzionalismo ha prodotto uno slittamento di potere dalle istituzioni rappresentative agli organi giurisdizionali, giuridicizzando le politiche e depoliticizzando la sfera pubblica (juristocracy), perché, come ricordato da Hirshl, «there is now hardly any moral, political, or public policy controversy in the new constitutionalism world that does not sooner or later become a judicial one» (Hirshl 2004, 71). Le rivendicazioni alla base delle identity politics hanno tratto vantaggio dalla juristocracy, trovando nel giudiziario (e in particolare nelle Corti costituzionali e sovranazionali) il luogo pubblico privilegiato dove cercare risposta alle proprie pretese. Inserendosi nei canali giurisdizionali, le identity politics hanno trasformato – anche con l’utilizzo della strategic litigation – il processo di mediazione dialogica tra diverse identità in una rivendicazione dialettica. L’alleanza tra juristocracy e identity politics ha prodotto due rilevanti conseguenze. In primo luogo, con l’introduzione di rivendicazioni emotivo/identitarie all’interno di controversie giuridiche, essa tende a plasmare lo stesso linguaggio dei diritti umani. Traducendo in termini giuridici tale domanda di riconoscimento, le identity politics condizionano il processo logico-argomentativo dei giudici, connotando la tutela giurisdizionale dei diritti umani di elementi psicologici soggettivi che hanno a che fare più con la percezione che il ricorrente ha della propria identità ferita che con l’effettiva violazione di un suo diritto costituzionalmente protetto. Si pensi, ad esempio, alla decisione della Seconda Sezione della Cedu nel famoso caso Lautsi v. Italia (2009), in cui il giudice europeo ha sancito l’incompatibilità della esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche italiane con le norme della Convenzione, ritenendo che la presenza di tale simbolo potesse essere «emotivamente fonte di turbamento per studenti di altre religioni o per coloro che non professano alcuna religione» (par. 55 corsivo aggiunto). Al di là della soluzione adottata, colpisce come il processo argomentativo dei giudici abbia considerato rilevante per la decisione la percezione emotiva provocata al ricorrente dal simbolo esposto; qualche anno più tardi (2011), la stessa sentenza della Grande Camera ha infatti messo in luce che «la percezione soggettiva [dei ricorrenti] non può essere sufficiente a caratterizzare una violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione» (par. 66), dal momento che, come ulteriormente precisato dal giudice Power nella sua concurring opinion, «il criterio, per stabilire se vi sia stata violazione [di un diritto della Convenzione] non è l’esistenza di un [generico] “turbamento” ma quella di una [concreta] “coercizione”». In definitiva, dunque, benché le argomentazioni dei giudici della Seconda Sezione siano state poi annullate dalla Grande Camera, esse mostrano come la narrativa delle identity politics sia in qualche misura penetrata nel linguaggio usato dai giudici dei diritti umani. In secondo luogo, e in modo ancor più rilevante, tale processo ha inciso sul ruolo tradizionalmente affidato ai giudici costituzionali che, chiamati oggi a decidere su questioni politiche fortemente divisive (Hirschl 2004, 72), dismettono i panni di legislatori negativi per indossare le vesti di attori del riconoscimento pubblico delle identità. Tale trasformazione rischia di incidere sulla percezione che i cittadini hanno delle Corti, di cui conoscono (in modo spesso sommario e approssimativo) le soluzioni finali senza comprenderne le argomentazioni profonde. Il risultato è che, sempre più di frequente, le sentenze dei giudici vengono percepite – a torto o a ragione – come decisioni prese da élites tecnocratiche lontane dalla (presunta) «volontà generale» del popolo, dai suoi bisogni, dai suoi interessi. I giudici stanno così diventando i principali attori dell’arena costituzionale poiché a loro ci si rivolge per colmare la lacuna tra il disaccordo sul riconoscimento di certi nuovi diritti e l’evoluzione della coscienza sociale che li supporta. Questo processo è particolarmente evidente quando, utilizzando il testo costituzionale come un living document, le corti decidono di farsi «avanguardia isolata» nel dettare «il senso di marcia» attraverso «l’invenzione»1 di nuovi diritti, finendo però talvolta per nutrire lo scontro politico tra vecchio e nuovo costituzionalismo e, con esso, il disaccordo politico all’interno delle nostre società. In definitiva, la stretta relazione tra juristocracy e identity politics ha cambiato sia gli attori che il linguaggio della richiesta di riconoscimento pubblico delle identità perché «the judicialization translates cultural, ideological, and political issues into arguments that are based on precedents and laws» (Pin 2019, 242). Ma questa trasformazione, di converso, ha prodotto un indebolimento strutturale degli organi rappresentativi e del processo deliberativo che, a lungo, sono serviti a canalizzare il disaccordo politico all’interno di regole e procedure democratiche (Baroš et al. 2018, 14). Questo processo ha così contribuito a rinfocolare la retorica anti-elitista che è alla base del successo mediatico e politico dei movimenti populisti a livello globale. Innanzitutto, ampliando la distanza tra le persone e coloro che devono assumere le decisioni, la juristocracy ha regalato ai partiti nazionalisti il perfetto nemico da combattere. Inoltre, promuovendo la dottrina universale dei diritti umani attraverso il linguaggio delle identity politics, il neo-costituzionalismo ha consentito che «liberal neutrality flattened questions of meaning, identity, and purpose into questions of equality and fairness» e, pertanto, «it misses the anger and resentment that animate the populist revolt; it lacks the moral and rhetorical and sympathetic resources to understand the cultural estrangement, even humiliation, that many working class and middle class voters feel; and it ignores the meritocratic hubris of elites» (Sandel 2018). Tutti i fenomeni finora descritti hanno trovato un terreno fertile nell’Ue, dove i movimenti sovranisti stanno sfruttando il crescente sentimento antielitista dei cittadini. Da sempre alla ricerca di un’identità emotiva comune, l’Europa sembra oggi incapace di risolvere il tema delle identità: come ricordato da Guibernau, infatti, l’identità nazionale e quella europea differiscono sostanzialmente tra loro poiché «the sense of belonging and attachment that defines the former tends to be replaced by an instrumentalist, rational or functionalist approach regarding membership of the latter» (Guibernau 2011, 311-312). STUDIO CONDOTTO DA Luca Pietro Vanoni, Benedetta Vimercati
Promuovendo un riconoscimento pubblico delle identità basato sulle differenze tra gruppi sociali in forza dei principi di libertà e non discriminazione, il fenomeno delle identity politics ha inciso in modo significativo sull’interpretazione dei diritti fondamentali e sulla teoria classica del costituzionalismo liberale. Intersecandosi con l’adozione di costituzioni rigide che contengono lunghi cataloghi di diritti e con la proliferazione sovranazionale di carte dei diritti direttamente applicabili, il fenomeno delle identity politics si è così legato allo sviluppo del neo-costituzionalismo, ossia una teoria del diritto costituzionale liberale che enfatizza il ruolo della judicial review (nazionale e sovranazionale) nella tutela dei diritti al fine di ridurre le inuguaglianze e i privilegi diffusi nelle nostre società democratiche (Hirshl 2007). In questo modo, la teoria del neo-costituzionalismo ha prodotto uno slittamento di potere dalle istituzioni rappresentative agli organi giurisdizionali, giuridicizzando le politiche e depoliticizzando la sfera pubblica (juristocracy), perché, come ricordato da Hirshl, «there is now hardly any moral, political, or public policy controversy in the new constitutionalism world that does not sooner or later become a judicial one» (Hirshl 2004, 71). Le rivendicazioni alla base delle identity politics hanno tratto vantaggio dalla juristocracy, trovando nel giudiziario (e in particolare nelle Corti costituzionali e sovranazionali) il luogo pubblico privilegiato dove cercare risposta alle proprie pretese. Inserendosi nei canali giurisdizionali, le identity politics hanno trasformato – anche con l’utilizzo della strategic litigation – il processo di mediazione dialogica tra diverse identità in una rivendicazione dialettica. L’alleanza tra juristocracy e identity politics ha prodotto due rilevanti conseguenze. In primo luogo, con l’introduzione di rivendicazioni emotivo/identitarie all’interno di controversie giuridiche, essa tende a plasmare lo stesso linguaggio dei diritti umani. Traducendo in termini giuridici tale domanda di riconoscimento, le identity politics condizionano il processo logico-argomentativo dei giudici, connotando la tutela giurisdizionale dei diritti umani di elementi psicologici soggettivi che hanno a che fare più con la percezione che il ricorrente ha della propria identità ferita che con l’effettiva violazione di un suo diritto costituzionalmente protetto. Si pensi, ad esempio, alla decisione della Seconda Sezione della Cedu nel famoso caso Lautsi v. Italia (2009), in cui il giudice europeo ha sancito l’incompatibilità della esposizione dei crocifissi nelle aule scolastiche italiane con le norme della Convenzione, ritenendo che la presenza di tale simbolo potesse essere «emotivamente fonte di turbamento per studenti di altre religioni o per coloro che non professano alcuna religione» (par. 55 corsivo aggiunto). Al di là della soluzione adottata, colpisce come il processo argomentativo dei giudici abbia considerato rilevante per la decisione la percezione emotiva provocata al ricorrente dal simbolo esposto; qualche anno più tardi (2011), la stessa sentenza della Grande Camera ha infatti messo in luce che «la percezione soggettiva [dei ricorrenti] non può essere sufficiente a caratterizzare una violazione dei diritti sanciti dalla Convenzione» (par. 66), dal momento che, come ulteriormente precisato dal giudice Power nella sua concurring opinion, «il criterio, per stabilire se vi sia stata violazione [di un diritto della Convenzione] non è l’esistenza di un [generico] “turbamento” ma quella di una [concreta] “coercizione”». In definitiva, dunque, benché le argomentazioni dei giudici della Seconda Sezione siano state poi annullate dalla Grande Camera, esse mostrano come la narrativa delle identity politics sia in qualche misura penetrata nel linguaggio usato dai giudici dei diritti umani. In secondo luogo, e in modo ancor più rilevante, tale processo ha inciso sul ruolo tradizionalmente affidato ai giudici costituzionali che, chiamati oggi a decidere su questioni politiche fortemente divisive (Hirschl 2004, 72), dismettono i panni di legislatori negativi per indossare le vesti di attori del riconoscimento pubblico delle identità. Tale trasformazione rischia di incidere sulla percezione che i cittadini hanno delle Corti, di cui conoscono (in modo spesso sommario e approssimativo) le soluzioni finali senza comprenderne le argomentazioni profonde. Il risultato è che, sempre più di frequente, le sentenze dei giudici vengono percepite – a torto o a ragione – come decisioni prese da élites tecnocratiche lontane dalla (presunta) «volontà generale» del popolo, dai suoi bisogni, dai suoi interessi. I giudici stanno così diventando i principali attori dell’arena costituzionale poiché a loro ci si rivolge per colmare la lacuna tra il disaccordo sul riconoscimento di certi nuovi diritti e l’evoluzione della coscienza sociale che li supporta. Questo processo è particolarmente evidente quando, utilizzando il testo costituzionale come un living document, le corti decidono di farsi «avanguardia isolata» nel dettare «il senso di marcia» attraverso «l’invenzione»1 di nuovi diritti, finendo però talvolta per nutrire lo scontro politico tra vecchio e nuovo costituzionalismo e, con esso, il disaccordo politico all’interno delle nostre società. In definitiva, la stretta relazione tra juristocracy e identity politics ha cambiato sia gli attori che il linguaggio della richiesta di riconoscimento pubblico delle identità perché «the judicialization translates cultural, ideological, and political issues into arguments that are based on precedents and laws» (Pin 2019, 242). Ma questa trasformazione, di converso, ha prodotto un indebolimento strutturale degli organi rappresentativi e del processo deliberativo che, a lungo, sono serviti a canalizzare il disaccordo politico all’interno di regole e procedure democratiche (Baroš et al. 2018, 14). Questo processo ha così contribuito a rinfocolare la retorica anti-elitista che è alla base del successo mediatico e politico dei movimenti populisti a livello globale. Innanzitutto, ampliando la distanza tra le persone e coloro che devono assumere le decisioni, la juristocracy ha regalato ai partiti nazionalisti il perfetto nemico da combattere. Inoltre, promuovendo la dottrina universale dei diritti umani attraverso il linguaggio delle identity politics, il neo-costituzionalismo ha consentito che «liberal neutrality flattened questions of meaning, identity, and purpose into questions of equality and fairness» e, pertanto, «it misses the anger and resentment that animate the populist revolt; it lacks the moral and rhetorical and sympathetic resources to understand the cultural estrangement, even humiliation, that many working class and middle class voters feel; and it ignores the meritocratic hubris of elites» (Sandel 2018). Tutti i fenomeni finora descritti hanno trovato un terreno fertile nell’Ue, dove i movimenti sovranisti stanno sfruttando il crescente sentimento antielitista dei cittadini. Da sempre alla ricerca di un’identità emotiva comune, l’Europa sembra oggi incapace di risolvere il tema delle identità: come ricordato da Guibernau, infatti, l’identità nazionale e quella europea differiscono sostanzialmente tra loro poiché «the sense of belonging and attachment that defines the former tends to be replaced by an instrumentalist, rational or functionalist approach regarding membership of the latter» (Guibernau 2011, 311-312). STUDIO CONDOTTO DA Luca Pietro Vanoni, Benedetta Vimercati
Commenti
Posta un commento