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CULTURA ED ATTUALITA' 3a PARTE

SECONDA PARTE pubblicata qui il 18/04/2020 Riflessioni su lobby gay e lobby rosa “Il Papa ha confermato che in Vaticano esiste una lobby gay". "Lobby gay e lobby rosa (anche mafia gay e mafia rosa, in inglese gay mafia e lavender mafia, cioè mafia lavanda) sono termini con i quali si allude a gruppi di pressione gay o a gruppi per i diritti civili dei gay. Generalmente si associano alla supposta mafia gay gruppi di influenza ai vertici delle industrie della moda e spettacolo". Il linguaggio non è innocente. E' immaginabile parlare di una "lobby dei neri", di una "lobby gitana", di una "lobby delle famiglie composte da uomo e donna" o di una "lobby delle donne" per riempire più spazi? Tento di differenziare due aspetti della "lobby": uno legittimo e l'altro inaccettabile. Ad esempio leggo che alcuni bambini di quinta elementare in un paese europeo sono riusciti, attraverso una raccolta di firme, ad impedire il rimpatrio di un compagno di scuola in un altro paese per permettergli di proseguire le cure alla sua grave malattia nel paese di immigrazione. E' una forma di pressione? Senza dubbio. E' una forma di pressione negativa? Non mi risulta e, molto probabilmente non lo è. Il problema delle "lobby" non è la pressione che tentano di contrapporre ad altre pressioni forti ed istituzionalizzate, come non lo sono gli argomenti ideologici che utilizzano, che siamo o meno d'accordo con le loro battaglie. Posso oppormi a determinate leggi che riguardano l'aborto, ma riconoscere al contempo la legittimità di chi la pensa diversamente da me. Posso avere una posizione di rispetto verso l'omosessualità e, allo stesso tempo, in una società plurale, riconoscere il diritto agli altri di esprimersi in direzioni differenti dalla mia. Il problema delle "lobby", insisto, non è la pressione in sé, ma le strutture che sostengono, le relazioni sottostanti, e, quel che è peggio, che nascondono, spesso attraverso affermazioni ideologiche talvolta apparentemente "corrette" e quasi indiscutibili in alcune circostanze. A questo punto introduco un altro aspetto: il fatto che alcuni membri del gruppo utilizzino modalità inaccettabili per difendere le loro posizioni, che non significa che tutto il gruppo sia da biasimare. Posso pensare, senza andare troppo lontano, ai preti pedofili... In un momento in cui gli integralisti xenofobi ed omofogi stanno canalizzando il malessere dell'Europa e permettono alla corruzione e alla malapolitica di trascinare nel fango ogni istituto normativo della convivenza e dei diritti civili. Trasformare in capro espiatorio gli omosessuali, gli immigrati e coloro che combattono per i diritti umani è pericoloso e non si deve essere tanto ingenui da abusare del termine "lobby gay". Esiste quindi una "lobby gay"? Certamente sì, ma non una soltanto. E in Vaticano? Beh, se lo dicono i nostri papi, disponendo di dati affidabili, è certamente inquietante ... Esiste una lobby dietro le associazioni "per il diritto di scelta"? Senza dubbio. E tutte queste, se spalleggiano la corruzione, sono oggetto di denuncia. Mentre, al contempo, fanno del bene. Ma perché non parlare a volte di una "lobby omofoba" o "lobby pro-vita", di una "lobby con un progetto politico concreto" con ancora più potere, magari legata al traffico di droga, al traffico d'armi. Non c'è bisogno di andare contro il sesto comandamento per appartenere ad una lobby pericolosa. Si può essere incredibilmente puritani in ambito sessuale e più libertari negli altri comandamenti. Negli Stati Uniti esistono esempi terribili di puritanesimo antievangelico, non solidale, discriminatorio e perfino criminale. Ammettendo l'esistenza di “lobby gay" in Vaticano, occorre domandarsi: chi può dirsi appartenente ad una lobby "gay"? Significa che tutti quelli che difendono i diritti delle persone omosessuali, o sono omosessuali, appartengono ad una lobby corrotta? Questo giustifica la posizione della Chiesa istituzionale, o le antiche direttive europee che hanno sferrato attacchi mortali alle persone che difendono i diritti dei gay o che lo sono loro stessi? Non ci vuole un profeta per immaginare come possano evolversi le cose in questi tempi oscuri in Europa se la Chiesa non reagisce in tempo e non smette di rendersi complice di questi estremismi: abortisti-antiabortisti; gay-eterosessuali ... Possiamo essere contro i lobbisti, quelli che ad esempio promuovono l'aborto libero, banalizzando la vita, o allo stesso tempo, non rientrare in altre lobby che criminalizzano ogni contesto abortista, usandolo come cortina di fumo perché altre gravi contraddizioni, interessi economici e politici, non emergano. Poiché ciò che conta a livello di denuncia, non sono i contenuti espliciti che una lobby difende, ma cosa vi si nasconde a livello di corruzione politica, finanziaria e di potere. Difendendo la causa dei poveri non dimentichiamo che tra i poveri ci sono degli omosessuali i cui diritti umani non sono riconosciuti, e ci sono le donne e le famiglie costrette in situazioni ai limiti della vivibilità che non possono accogliere una nuova creatura; e non sempre le leggi li progettono alla stessa maniera in cui sono protetti (almeno in teoria) i nascituri (solo mentre si trovano ancora nell'utero materno, perché successivamente è possibile che un assassino viva tranquillo e indisturbato nella società). E se non ristabiliamo queste sfumature e differenze, se non vivacizziamo la nostra critica, rendiamo gioco facile alle lobby mondiali che mirano a posizionare i membri in posizioni di autorità, lasciando senza protezione gli attivisti per i diritti umani in balia di assassini senza scrupoli. Sembra che la deriva del capitalismo finanziario internazionale sia andata a braccetto con la Chiesa per quanto riguarda l'esclusione e la persecuzione degli immigrati e dei rifugiati, almeno in termini generali. Ma si possono trovare anche altri capri espiatori come i musulmani, gli omosessuali, le donne che autodeterminano la propria capacità riproduttiva, i religiosi impegnati nei diritti umani. Ma facciamo attenzione, non sia mai che per una determinata ideologia, determinata da certa gerarchia ecclesiastica in tema di sessualità, quanto meno discutibile, ci ritroviamo a giustificare l'autoritarismo e la barbarie, estremizzando e dividendo una società che oggi, più che mai, ha bisogno di unirsi e riscoprire ciò che vuole e ciò che non vuole. E, mentre la gente di scontra su questioni di morale "sessuale", come se fosse l'unica vera morale e come se ne esistesse soltanto una, coloro che promuovono questa lotta, ci tengono d'occhio rubando, sfruttando e massacrando. Non possiamo fare a meno di ricordare i casi di preti impegnati per i diritti umani in America Latina che sono stati assassinati per il loro impegno e il crimine è stata spacciato come un regolamento di conti fra omosessuali. E la Chiesa nel silenzio non ha mai perseguito questi crimini. Un'altra cosa da ricordare, nel caso qualcuno si dimenticasse: gli abusi su minori non sono direttamente legati all'omosessualità. Non sia mai che ora il marcio che è uscito dalle cloache ecclesiastiche sia caricato sulle spalle di alcuni , o di un gruppo pur abbondante che sia, che magari sono onesti e per bene. Questo problema ha riguardato omosessuali ed eterosessuali. Si tratta di un abuso di potere perpetuato con la violenza su altre persone, in questo caso bambini e bambine, favorito da una struttura di relazioni di dominio e alla presenza di personalità disturbate. Nel clero, nella sua formazione e nelle relazioni che si stabiliscono con la frequentazione, purtroppo, questo continua ad accadere, anche se non si tratta dell'unico ambito in cui ciò si verifica. Quindi stiamo attenti al linguaggio e alle rappresentazioni che ne derivano perché può darsi che non sia così innocente. Ciò che denunciamo sono le lobby, ma continuiamo a discutere liberamente le questioni che interessano specifici gruppi di persone con cui viviamo. E, per questo, non possiamo fingerci ignari. E, per favore, i grandi temi che affiggono l'Europa sono ben altri. Stanno distruggendo la vita dei bambini, dei nascituri, degli infermi, degli anziani, delle donne, stanno attentando alla famiglia. Il fatto che i giovani sui trent'anni non hanno lavoro o ne hanno uno con condizioni non dignitose, per cui devono andare per il mondo, separando coppie, impedendo la procreazione desiderata, non mina la famiglia e i diritti riproduttivi delle persone? I diritti dei nascituri finiscono al momento della nascita? I nuovi nati sono già entità autonome interessate dalle situazioni familiari o dalle risorse di protezione dell'infanzia? La difesa della vita è compatibile con la difesa di certi tagli al welfare? Guardate, la verità è che sono molto furbi e hanno un sacco di potere tanto da promuovere queste "cortine di fumo". Forse qualcuno, dopo aver letto questo scritto, penserà: "Wow, questo autore sostiene che la "lobby per l'aborto" e la "lobby gay" siano un male. Niente di più lontano dai miei pensieri, dal mio impegno e dalla mia tesi. Ma temo un po' la direzione in cui queste possano portare, alcune per malvagità altre per cecità o parzialità. Penso che dobbiamo smontare un certo tipo di discorsi e rivelare cosa c'è dietro. Il Papa da solo non lo può fare. Lui ha iniziato. Provvediamo noi, perché lui è certamente un tipo a posto, un tipo onesto che cerca di ricostruire la Chiesa. Con il suo modo di essere, con l’unicità nella sua gestualità, semplice, Papa Francesco sta facendo controcultura. Categorie culturali e filosofiche delle lobby gay In questi giorni mi è capitato di leggere due articoli da due riviste, una online, “Cultura&Identità”, rivista di studi conservatori, diretta da Oscar Sanguinetti e l’altra cartacea, “Cristianità”, organo ufficiale di Alleanza Cattolica. Due articoli che potrebbero dare un consistente contributo per capire quali sono le categorie culturali e filosofiche di certe “conquiste” libertarie collegate all’omosessualismo, e a tutto il mondo del progetto “LGBT”. Il primo intervento redazionale di “Cultura & Identità” del 25 maggio scorso, 1 numero (nuova serie), col titolo: “Le nuove frontiere della nuova “cultura di morte”” sostiene che gli scenari attuali della nostra società non si discostano molto da quelli previsti da George Orwell e Aldous Huxley, specialmente da quelli espressi ne Il Mondo Nuovo. L’umanità dominata dai poteri tecnocratici totalitari e postreligiosi (previsto dai due autori)trattano i singoli allo stesso tempo da schiavi-soldati, da schiavi riproduttori e da materiali di esperimento d’ingegneria sociale e biologica. Peraltro è uno scenario in via di realizzazione; la rivista fa un inventario e parte soprattutto dalla famiglia. In pratica dopo il divorzio, si è passati all’equiparazione dei rapporti omosessuali a quelli matrimoniali eterosessuali, con annesso diritto di allevare un bimbo con due “padri” o due “madri”. Poi si passa alla sfera della sessualità con l’aborto, la riproduzione in vitro, la selezione genetica, la clonazione, gli uteri in affitto, l’eutanasia con il suicidio assistito. Quindi la teoria del gender, la liceità della bestialità, in tal senso sono state emanate in Spagna delle leggi durante il doppio mandato del socialista Zapatero. Mentre a livello individuale, la liberalizzazione delle droghe. L’ultima pratica “libertaria”, sarà quella della pedofilia, anche se per ora viene condannata e attribuita soltanto agli ecclesiastici. In pratica l’individuo si sta emancipando dai condizionamenti della morale e della natura. E’ un’offensiva ormai in mano alle avanguardie abortiste e di “Lgbt”. L’altro intervento apparso su “Cristianità”, il numero 368, è di Domenico Airoma, “L’”anello di Gige”, ovvero riflessioni su diritto e libertà in epoca postmoderna”. Dell’articolo di Airoma ci interessano le riflessioni in riguardo all’epoca postmoderna cioè al Sessantotto, che conduce al processo di assolutizzazione della libertà, priva di ogni limite, liberata dall’ultimo vincolo, quello corporeo. E’ la nostra epoca, dominata dall’accanimento contro l’ultimo residuo di oggettività: l’uomo stesso, la sua corporeità e con essa il suo ordine interiore. Dunque, il sessantotto ha operato per distruggere i vari vincoli che operano intorno alla famiglia: “il primo vincolo da abbattere è quello che il corpo stesso impone all’uomo e alla donna per il fatto di nascere ‘maschio’ e ‘femmina’”, già nel 2009 in un documento dell’ONU, l’identità sessuale viene definita come un costrutto di derivazione sociale e culturale. Pertanto secondo Airoma, “l’identità sessuale diventa identità di genere ed è frutto di una scelta del tutto volontaristica, mutevole orientamento, sempre modificabile, anche per effetto di una mera manifestazione di volontà, che tocca alla’anagrafe pubblica registrare, anche a prescindere dall’effettivo mutamento di sesso: è il paper-gender, appunto, il genere ‘sulla carta’, il sesso iper-reale”. Infatti, “che ne è della percezione del corpo di un transessuale: uomo? Donna? Uomo divenuto donna?” Oggi non siamo più sicuri di sapere se il corpo percepito è quello di un uomo o di una donna. Gli orientamenti sessuali sono i più vari, a seconda di come si vuole essere, pertanto anche gli accoppiamenti possono essere non determinati o non determinabili. L’unione fra i sessi può assumere varie forme, dalle convivenze alle dichiarazioni, formate sia di sesso diverso che dello stesso sesso. “Quel che costituisce dato non negoziabile è che tutti, a prescindere dal loro orientamento sessuale, hanno diritto a crearsi una famiglia, essendo oramai da ritenersi superato l’assunto ‘artificioso’ secondo cui, perché si dia famiglia, sarebbe indispensabile l’unione di due persone di sesso diverso”. Ormai la famiglia scivola sulle sabbie mobili del soggettivismo, viene meno anche il legame famiglia-figli, diventa secondario, i figli sono un accidens, che si possono fare benissimo fuori della famiglia, possono essere procreati se e quando se ne ha voglia, magari avvalendosi della tecnica di fecondazione artificiale. Il sociologo Roberto Volpi, nel suo libro “La fine della famiglia”, può scrivere che “la biologia della riproduzione naturale si allontana dalla famiglia(…)la biologia della riproduzione o fecondazione assistita(…) attesta la ‘trasformazione’ della famiglia, non più necessaria alla riproduzione”. Praticamente la vita e la morte sono dominate dal soggettivismo manipolativo, e così secondo Airoma, “la perdita di oggettività di vita e morte rende sconfinate le prospettive d’intervento delle biotecnologie. La tecnica offre gli strumenti per ri-creare il corpo, sottraendo l’uomo alla ‘lotteria della nascita’, finalmente incidendo sulla stessa irripetibilità di ogni uomo, che è l’estrema frontiera della sua dignità”. Si può evitare tutto questo processo di “cultura di morte”, come l’ha definito il beato Giovanni Paolo II, questo insieme organizzato di giudizi sul reale, di segno totalmente opposto rispetto al buon senso? Per Airoma occorre risvegliarsi, bisogna ritornare al reale, bisogna risvegliare la coscienza, e porta l’esempio di Walt Heyer, ex trans gender, che descrive molto bene la disumanità dell’ideologia del gender, che prescinde dal corpo: “è giunto il momento di mettere a nudo l’inganno: gli interventi chirurgici di riattribuzione del sesso non fanno altro che peggiorare la vita di chi vi si sottopone. L’ho imparato a mie spese e non posso che essere vicino alla sofferenza dei trans gender, ma un atteggiamento di comprensione non basta: è necessario un supporto psicologico e psichiatrico che li aiuti ad affrontare i problemi. E’ pura follia continuare ad avallare una procedura chirurgica, fallimentare e causa di grandi sofferenze, come risposta a un disturbo che è di natura psicologica”. Oltre il pregiudizio del termine Lobby. Tuttavia una opportunità di crescita. In ogni comunità politica, fin dalla antichità, sono presenti gruppi di uomini che, uniti da comuni interessi, si adoperano, ricorrendo a forme di pressione, per ottenere da parte del potere politico l’adozione di particolari provvedimenti o di complesse linee politiche che a quegli interessi siano confacenti. Correntemente tale gruppo di persone viene definito, indifferentemente, “gruppo di interesse” o “gruppo di pressione”. Il termine “gruppo di pressione” ha, nella lingua italiana, un sinonimo acquisito dalla tradizione anglosassone: “lobby”. Lobby è parola di derivazione latina medioevale (da lobia = portico). Secondo Adrian Room questa parola venne usata per la prima volta da Thomas Becon in The relikes of Rome nel 1553; venne poi ripresa nel 1593 da William Shakespeare in Henry VI - Parte seconda, con il significato di “passaggio”, “corridoio”. Fu nel secolo XVII che il termine lobby venne ad indicare, nella House of Commons, la grande anticamera in cui i membri del parlamento usavano votare durante una division. Successivamente il termine venne attribuito a quella zona del Parlamento in cui i rappresentanti dei gruppi di pressione cercavano di contattare i membri del parlamento stesso. Per indicare questi rappresentanti e l’attività da essi esercitata, si iniziò, nel Diciannovesimo secolo, a far uso dei termini lobbyist e lobbying. Estensivamente lobby indica poi il gruppo da essi rappresentato. Il termine viene usato oggi anche per indicare un certo numero di gruppi, organizzazioni, individui, legati tra loro da un comune interesse ma non necessariamente dal senso di appartenenza al gruppo. E, per finire, esso è stato adottato dal linguaggio giornalistico, anche per indicare una manifestazione popolare – generalmente composta da un corteo, comizi, uso di cartelli e striscioni – che ha lo scopo di far pressione a supporto di (o contro) un preciso provvedimento legislativo. Tutti gli usi non letterali del termine lobby, escluso quest’ultimo, sono entrati a far parte della lingua italiana o, per lo meno, del linguaggio giornalistico italiano. Abbiamo quindi: “lobby”, “lobbies”, “lobbying”, “lobbista” e “lobbismo”. Va constatato che al termine lobby vengono generalmente attribuite, in Italia, varie connotazioni negative. Sotto la voce, in alcuni dizionari della lingua italiana si legge: - «gruppo di potere occulto»; - «gruppo di potere economico-finanziario che agisce occultamente influenzando le decisioni politiche»; - «gruppo di interesse che, mediante pressioni anche illecite su uomini politici, ottiene provvedimenti a proprio favore»; - «gruppo di persone che, sebbene estranee al potere politico, hanno la capacità di influenzarne la scelte, soprattutto in materia economico finanziaria». Il ruolo totalizzante dei partiti politici, nelle dinamiche relazionali con le istituzioni nei primi quarant’anni di vita repubblicana, rendeva superflua, nella società politica italiana, la necessità di una istituzionalizzazione delle pratiche di lobbying. È tempo di istituzionalizzare La crisi dei partiti di massa però segna il punto di svolta per avviare nel paese una riflessione più serena sulle prospettive di un’istituzionalizzazione dell’attività relazionale dei gruppi di interesse nel contesto nazionale. Non è un caso che a partire dagli anni Novanta si è assistito al proliferare del dibattito sulle attività lobbistiche. Il lobbying era ritenuto un fenomeno di per sé necessario al corretto funzionamento di un sistema politico rappresentativo democratico. Ma, allo stesso tempo – così come emergeva dalla relazione censis: Elementi di riflessione socio-politica del 1990 – si riteneva necessario porre dei rimedi a certe forme “occulte” di corruzione e pressione illecita che a volte accompagnavano azioni di lobbying portate sia attraverso le direzioni dei partiti sia attraverso altri canali. L’eclissi del partito-Chiesa, dove la struttura, sapientemente assortita, agiva – impropriamente e a volte al limite della liceità – da filtro a tutta una serie di istanze da veicolare verso i decisori, ha privato i politici di uno strumento strategico nella gestione dei rapporti con gli interessi costituiti. La metamorfosi dei partiti all’alba della seconda repubblica, in un contesto politico trasformato, porta ad abbandonare le dimensioni “burocratiche” dell’organizzazione interna per strutture più snelle e “movimentiste”. Ai partiti (e per estensione alle istituzioni) viene così a mancare quell’insieme di nozioni tecnico-specialistiche, che la struttura capillare garantiva, necessarie per giungere ad una decisione positiva e significativa, nozioni che al contrario le lobbies sono in grado di fornire. Ancora oggi, tuttavia, molti politici e giornalisti italiani considerano il lobbying, portato attraverso canali diversi da quelli partitici, come una attività illecita, spesso accompagnata da corruzione, corporativismo, manipolazione delle informazioni, clientelismo, insomma come una attività che «disturba la serena autonomia del giudizio del legislatore, la neutralità dell’amministratore pubblico». Questa concezione deriva dalla opinione diffusa secondo cui il processo decisionale, sia legislativo che amministrativo, deve, in una democrazia rappresentativa, essere monopolizzato dai politici di professione e quindi dai partiti. Gli interessi che non passano attraverso questi canali verrebbero quindi ritenuti emanazione di centri occulti, tradendo una evidente miopia sulla struttura del sistema di relazioni diffuse che caratterizza la società contemporanea. Al riguardo è sintomatico che il parlamento italiano da trent’anni (il primo progetto di legge risale infatti al 1976) tenti, senza successo, di regolamentare le attività di rappresentanza di interessi particolari presso i centri decisionali pubblici e istituzionali. Con uno sguardo cursore alle proposte di legge che sono state prodotte sull’argomento viene in evidenza la diversità di approccio al tema. Da un lato si rileva un indirizzo più favorevole e tollerante, teso al riconoscimento dell’attività di pubbliche relazioni intesa come attività sostanzialmente positiva, mettendo in ombra l’aspetto di pressione sui decisori; dall’altro, emerge un orientamento preoccupato della regolamentazione e del controllo di un fenomeno considerato in modo negativo. L’unico elemento comune si individua in quello che il professor Piero Trupia, in un suo libro del 1989, ha definito «l’abbinamento della regolamentazione sulla lobby alla disciplina della professione di pubbliche relazioni e la poco meditata ispirazione alla legislazione statunitense, trascurando la diversità del contesto istituzionale». Nella XIV legislatura, i lavori della I Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati hanno avuto a oggetto l’unificazione di tre progetti di legge disciplinanti l’attività di relazione istituzionale, superando per la prima volta l’esame preliminare. Il tempo non è pero stato sufficiente a completare l’iter di approvazione, ma la vicenda parlamentare degli ultimi progetti sul tema è sintomatica di un diverso – seppur ancora parziale e minoritario – atteggiamento della classe politica del nostro paese. Il sentiero da percorrere si prefigura comunque ostile, causa soprattutto un pregiudizio culturale nei confronti delle attività di lobbying. Se ne trova traccia nelle premesse dell’ultima proposta di legge presentata al Senato nel luglio 2005, dove si evidenziano «tempi ormai maturi per introdurre anche nel nostro ordinamento il principio che rappresentare ufficialmente presso le istituzioni interessi dichiaratamente di parte secondo criteri di trasparenza validi per tutti e di dialogo codificato è un’attività lecita». Se considerare necessaria una regolazione per un’attività che di fatto è entrata nella prassi delle relazioni pubbliche – non a caso viene usato il termine “ufficialmente” – è elemento positivo che in primis ne certifica di fatto l’esistenza, meraviglia però la volontà di considerarla un’attività “lecita”. Nonostante l’apprezzamento per l’ulteriore tentativo di dare rilievo normativo al lobbying, ciò che si contesta – e qui viene tradito un certo pregiudizio culturale – è il tentativo di condurre nell’alveo della legalità ciò che prima non vi era. Come se esercitare il lobbying fosse una pratica illecita. Quando invece illecito può essere solo considerato un comportamento così definito dall’ordinamento. Semplicemente il lobbying per l’ordinamento italiano a oggi non esiste. Ma come può essere vero? In un rapporto del marzo 2006 del cipi (Centro italiano di prospettiva internazionale) di Bruxelles, su “Le lobby d’Italia a Bruxelles” emerge come l’Italia – attraverso le Regioni, le autonomie locali, i grandi gruppi industriali, le associazioni di settore, i gruppi finanziari e assicurativi, le università, la stampa e le ong – si adopera in attività di lobbying, testimoniando che, dove regolata, l’attività lobbistica italiana è sinonimo di grande dinamicità. Un segnale evidente di una società preparata a metabolizzare il lobbying viene dal mondo delle università. Sono ormai diversi gli atenei italiani che offrono corsi di specializzazione post-universitaria in attività di lobbying e relazioni istituzionali, sintomo chiaro che il paese reale si sta, da tempo, adattando a quella che è una naturale esigenza di tutte le società politiche contemporanee: l’attività di relazione. Può quindi apparire normale interrogarsi sul perché di una mancata regolamentazione nazionale di questa attività. Da un lato, chi di fatto oggi è titolare di un interesse da tutelare è al tempo stesso capace, perché dotato di strutture adeguate, di esercitare direttamente le pressioni a tutela di un proprio tornaconto. Si pensi ad esempio alle grandi imprese o alle importanti associazioni di categoria e alle grandi confederazioni sindacali che, stringendo di fatto una relazione diretta con il mondo politico, sono efficienti nel tutelare gli interessi rappresentati. Certamente l’assenza di una previsione normativa non va ad inficiare le capacità di influenza di questi grandi players del panorama delle relazioni pubbliche. Appare però lecito domandarsi se una mancata regolamentazione non sia funzionale al ruolo stesso di questi grandi giocatori, se oggi l’esigenza di istituzionalizzare il lobbying non rappresenti un tipico caso di (paradosso eclatante!) interesse recessivo di fronte a situazioni dotate di maggiore tutela e forza contrattuale. Poiché è sicuramente più vantaggioso operare in un mercato – oligopolista per carenza di partecipanti – che accettare le regole della concorrenza. Individua forse la vera chiave di lettura Massimo Micucci – uno dei soci fondatori di Reti SpA, primo vero esempio di lobbying italiano impostato su standard di ispirazione anglosassone – quando, in un articolo pubblicato dal quotidiano Il Riformista nel maggio 2004, sostiene che il lobbying è funzionale al rafforzamento della democrazia. Ciò acquista maggiore valenza considerando la trasformazione del panorama politico italiano intervenuta negli ultimi dieci anni con il radicamento della logica bipolare tra centrodestra e centrosinistra. Infatti, l’allineamento alle società politiche occidentali più evolute insieme a una sostanziale stabilità delle istituzioni e l’esperienza (purtroppo interrotta) del sistema maggioritario uninominale, hanno introdotto nella realtà italiana la convinzione che ogni interesse, a partire dal più debole, potesse avere quanto meno una rappresentanza territoriale, interpretata spesso in maniera trasversale dai politici. Ma se la territorialità individua uno dei caratteri di un interesse costituito, esso rappresenta solo un aspetto della rilevanza di un interesse particolare che non dovrebbe – in linea di massima – per ragioni di opportunità essere veicolato dal soggetto politico, il quale per definizione opera a tutela dell’interesse generale. Interesse particolare e politica scoprono – o meglio, dovrebbero scoprire – nelle attività di lobbying il punto di connessione, dove il soggetto politico viene informato sulle dinamiche, sulla complessità e sui problemi a cui certe tematiche sono sensibili. Di contro, il detentore di un interesse esclusivo prende coscienza delle ragioni della politica e delle difficoltà del governo della cosa pubblica, viene informato delle ragioni dell’interesse generale e di quelle opposte o diverse dalle proprie «in un percorso di responsabilità, di dialogo e di trasparenza». Continuare a far esistere il lobbying in forma impropria o clandestina rischia quindi di confonderlo e assimilarlo a pratiche illecite, ai limiti della corruzione. Esso dovrebbe invece essere considerato alla stregua di un atto democratico e, come tale, va incoraggiato. Lungi dall’essere una scienza a parte, il lobbying presuppone un approccio integrato che coniughi capacità comunicative e di relazione adatte alle istituzioni pubbliche, una cognizione esatta dei diversi processi decisionali. Una buona pratica di lobbying richiede capacità in aree diverse quali sociologia, politica, diritto, economia e storia. Puntare su trasparenza e competenza Il lobbying non è affatto sinonimo di corruzione, connivenza o favoritismo (attività, queste, formalmente condannate dalle istituzioni in cui è regolamentato). Al contrario, si tratta di un dialogo mutuamente proficuo che giova sia alle istituzioni, sia agli interessi dei gruppi esterni, è un indicatore di dinamicità della società politica, nella quale interessi costituiti hanno l’occasione di far presente al legislatore il proprio caso, allo scopo di informarlo meglio in relazione alle conseguenze delle azioni da lui proposte. Grazie all’elevato contenuto tecnico, competente, rapido e sintetico del loro approccio tipico, le lobbies hanno la capacità di portare sul tavolo del governo delle istanze minoritarie, ciò che l’opposizione in parlamento non sarebbe in grado di fare (o, in certi casi, non ha nemmeno interesse a fare). Infatti i partiti politici e il parlamento hanno un approccio necessariamente più lento, articolato e ideologizzato. Inoltre una libera attività dei gruppi di interesse contribuisce a controbilanciare la forza, a volte eccessiva, di quei gruppi di pressione che in un sistema caratterizzato da spinte corporative avrebbero invece totale libertà d’azione. È necessario però per la democrazia che il lobbying sia praticato alla luce del sole, così che gli elettori possano rendersi conto di quali pressioni sono esercitate su coloro che scrivono le loro leggi, e possano di conseguenza giudicare autonomamente il peso e la rilevanza di tali influenze. Il paradigma di riferimento a sostegno del lobbying è, senza dubbio, storicamente quello statunitense; più di recente si aggiunge – visto anche il diretto coinvolgimento di interessi nazionali – quello europeo. Le evoluzioni del caso Abramoff, dal nome del più famoso lobbista americano travolto da un caso di corruzione, diranno se si tratta di un caso isolato, e tutto sommato fisiologico, oppure se il sistema delle relazioni istituzionali negli usa necessita di un ulteriore ripensamento dopo quello del 1995 che con il Lobbying Disclosure Act abrogò il Federal Regulation of Lobbying Act del 1946. Il legislatore americano d’altro canto si è sempre preoccupato di contrastare le influenze occulte sui processi decisionali, implementando i meccanismi di trasparenza e sacrificando un approccio etico-deontologico. Al contrario di quanto avviene nell’Unione Europea dove, a oggi, non esiste una legge specifica sul lobbying, ma soltanto codici di condotta e testimonianze di autodisciplina da parte dei gruppi di interesse. Ma anche nell’Unione Europea si avverte la necessità di tutelare maggiormente i meccanismi di trasparenza. Infatti, nel novembre 2005 la Commissione Europea ha inaugurato la European Transparency Initiative, una proposta utile a sviluppare un dibattito per «aumentare l’apertura e l’accessibilità delle istituzioni europee, per far crescere la consapevolezza sull’uso del budget europeo, e per rendere le istituzioni dell’Unione maggiormente responsabili di fronte al pubblico». Argomento determinante è quello della trasparenza nel lobbying. La trasparenza nel settore è considerata spesso insufficiente soprattutto rapportata alle conseguenze e all’influenza enorme che lobbisti e gruppi di interesse con sede a Bruxelles hanno sulla legislazione europea – specialmente nelle parti più tecniche – e sulla gestione del budget. Quello della regolamentazione del lobbying è diventato quindi un aspetto fondamentale. Se l’etica del lobbista è funzionale a un certo grado di trasparenza della propria attività, sta alle istituzioni europee il compito di tutelare la trasparenza nelle pratiche di lobbying. Al momento attuale infatti la regolamentazione dell’attività di lobbying nelle istituzioni europee è imperfetta e frammentata. I registri delle organizzazioni di lobbisti sono volontari e non forniscono particolari informazioni sugli interessi rappresentati o sui finanziamenti ricevuti. Stessa considerazione vale per i codici di condotta volontari, non universalmente accettati e spesso lacunosi. Se da un lato in sede europea c’è chi preme affinché la Commissione imponga i codici di autoregolamentazione a chi fa lobbying, altri reclamano una normativa rigorosa che obblighi i lobbisti alla registrazione, a dichiarare la provenienza delle proprie disponibilità finanziarie e che vigili sui funzionari europei registrando – a esempio – i colloqui con i lobbisti o prevedendo limitazioni al passaggio dal ruolo di funzionario a quello di lobbista. L’esperienza americana e quella europea possono rappresentare un riferimento concreto se, finalmente, in Italia si decidesse di dar seguito a un’istanza da troppo tempo disattesa. Esiste ormai una consapevolezza diffusa sul ruolo che il lobbying può giocare come supporto al decision maker e non manca, d’altronde, l’offerta formativa utile a fornire il necessario serbatoio di professionalità a un settore che potrebbe risultare strategico nel futuro del paese. Resta solo da vedere se il legislatore sarà capace di dare giusto rilievo alle attività di lobbying. Sarà pero necessario che la imprescindibile trasparenza nel settore – requisito primario non derogabile – non sia il risultato di una iper regolamentazione che rischi di soffocare sul nascere le prospettive del lobbying in Italia. Non è irrilevante il dato per cui nella sola Washington il business del lobbying è stimato in due miliardi di dollari l’anno. Logica conseguenza è che il lobbying potrebbe avere nel nostro paese anche, un importante impatto economico, con i benefici in termini di indotto che un’economia di mercato ben conosce. Una regolamentazione del lobbying rappresenterebbe, da diversi punti di vista, più un’opportunità che un rischio per il sistema istituzionale ed economico. Estratto dal libro Sine Contracultura

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 L’Unione Europea, a partire dalla crisi economica globale del 2008 ha sempre fatto il possibile per farsi detestare, in Italia e in moltissime altre nazioni del continente. Occorre dire che la gestione di diverse rispettive classi dirigenti nazionali, fra incolmabili debiti pubblici e una crescita economica pari a zero, ha permesso all’Ue di manifestarsi più come una matrigna che mal sopporta i propri figliastri che come una mamma, magari severa quando serve, ma giusta nei confronti di tutti i suoi figli. Non a caso, sono poi cresciuti partiti e movimenti euroscettici in più Paesi europei, la Brexit è divenuta realtà e tutt’oggi alcuni governi nazionali, come quello ungherese e quello polacco, sono spesso in contrasto con le Istituzioni comunitarie. Del resto, Bruxelles, si direbbe, andrebbe ringraziata, con tanto di servile inchino, per i soldi del Pnrr. Intanto, è bene ricordare come il denaro del Recovery Fund non rappresenta affatto un regalo compassionevole, essendo composto, in

LA CONTROPRODUCENTE GIORNATA MONDIALE CONTRO LA VIOLENZA SULLE DONNE

  E' sempre con profonda amarezza che osservo la celebrazione di giornate come questa, accanto a tutto il carico di ipocrisia politicamente corretta che ci viene propagandata mediaticamente, tra chi si tinge il viso di rosso, cariche istituzionali che si prestano a questo giochino, dichiarazioni banali e scontate e via dolcificando l'opinione pubblica. Nel momento in cui una donna accetta di celebrare una giornata mondiale dedicata alla violenza sulle donne, crea la stessa categorizzazione di cui poi sarà vittima perchè è evidente che se si condanna la violenza soltanto verso un genere, si sta implicitamente affermando che l'altro genere non merita tutele, ottenendo come unico risultato di scatenare un focolaio di maschilismo reattivo antifemminista. Ed è attraverso la strumentalizzazione di tragedie che vedono vittima una donna e di cui è colpevole un uomo non in quanto maschio ma in quanto persona prepotente - e la prepotenza non è una caratteristica di genere ma di speci

OGGI È ATTACCO AL VINO, IERI ALLA PROPRIETÀ. E DOMANI...

  I salutisti dell’Unione europea tornano alla carica con un’altra battaglia: quella contro il vino. A fare da apripista è stata l’Irlanda, che potrà dunque applicare sugli alcolici un’etichetta con scritto “il consumo di alcol provoca malattie del fegato” oppure “alcol e tumori mortali sono direttamente collegati”. O più direttamente "il vino provoca il cancro". Secondo i dati di Alcohol Action Ireland, il consumo di alcol puro pro capite tra chi ha più di 15 anni è stato di 10,07 litri nel 2020, che corrisponde a poco meno di 40 bottiglie di vodka, 113 bottiglie di vino o 436 pinte di birra e supera del 40% il livello di consumo indicato dalle linee guida dell’agenzia governativa Health Service Executive (HSE). Quindi l'Irlanda, attraverso il silenzio assenso della Commissione Europea, con questo provvedimento, crede sul serio di combattere l'abuso di alcol? Perché i dati sopra elencati chiariscono e permettono di affermare che siamo in presenza di un eccesso di uti