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IL SOTTILE EQUILIBRIO TRA INDIVIDUALITA' ED UNIVERSALITA'

Il dualismo universalità e individualità non è nuovo; come non è nuova la contrapposizione fra società e individuo. Nel campo filosofico, queste due domande profonde hanno avuto risposte profonde. Già al principio del Novecento, Benedetto Croce dava una sistemazione concreta alla dimostrazione che l’universalità nell’arte si raggiunge attraverso l’individualità, e che si riesce tanto più universali quanto più si è individuali. Anche nella sfera dell’azione morale, il conflitto tra l’individuo e la storia si risolveva nella dialettica. “Guardo me stesso come in spettacolo” scrive Croce in un suo capitolo sulla Grazia e il Libero arbitrio, “la mia vita passata, l’opera mia. Che cosa mi appartiene di quest’opera e di questa vita? che cosa posso, con piena coscienza, dir mio? Se un pensiero, sorto in me, è sembrato a me e agli altri un acquisto di verità, esso mi è venuto nella mente per illuminazione; … e, ora mi appare come se mi si sia fatto in me di per se stesso e la mia mente ne sia stata solo il luogo di manifestazione, il teatro. Se ripenso a una mia azione che mi soddisfa … Anche, quell’azione si è fatta in me e non l’ho fatta io; e doveva così farsi, perché lo Spirito ne aveva bisogno nella logica del suo svolgimento … Ma … anche gli errori, anche il male furono necessari e perciò, in un certo senso, furono bene, e appartengono non a me, ma all’autore stesso del male e del bene, allo Spirito che così si svolge e cresce, alla Provvidenza che così dispone, e che altresì in ciò segue la sua logica, quella logica dei contrari che per l’appunto si chiama la dialettica. La Grazia è discesa in me in certi momenti, e in altri momenti la Provvidenza non ha voluto che quella scendesse, ma che io errassi e peccassi per preparare materia e condizione al mio (che è il suo) nuovo operare. E con la necessità e la dialettica e la Grazia e la Provvidenza, non solo il libero arbitrio e la responsabilità si dissolvono, ma si dissolve il concetto stesso dell’individuo come entità e realtà, prendendo in suo luogo il ben diverso concetto dell’individualità dell’opera, ossia la sua qualità inconfondibile con quella delle altre: una individualità che è poi la definizione stessa dell’universalità concreta e non astratta, della vera ed effettiva universalità… Così è; giacché, non appena io cesso dal contemplarmi in spettacolo e rientro nella mia vita attiva e pratica, ecco che tutte quelle cose che si erano disciolte, colpite di nullità, si ricompongono e risorgono energiche e imponenti come per l’innanzi: e io mi ritrovo individuo e fornito di libero arbitrio, e responsabile, e capace di meriti, e condannabile per demeriti, e attaccato alla mia individualità e alla vita…” Questa è la soluzione della corrente idealistica. Ma esiste anche la soluzione della corrente materialistica la quale al posto della parola Spirito mette la parola Società, e asserisce che l’individuo è tanto più libero e autonomo quanto più coincide e s’identifica con la società. Non dirò per quale soluzione io propenda personalmente, prima di tutto perché la cosa ha poca importanza, e in secondo perché la mia propensione è implicita in quello che dirò dopo. Ma il fatto è che l’una e l’altra soluzione servono ad arricchire la cultura e la civiltà finché non avvenga quello scandaloso colpo di mano che taluni uomini di azione hanno compiuto sulle idee. Mi spiego meglio: finché lo spirito universale è una forza che agisce dentro di me, finché la società è il mio sentimento altruistico, la soluzione che io do al conflitto tra me e lo spirito universale, tra me e la società, sarà sempre positiva e umana. Ma quando in un regime totalitario di destra, un dittatore si affaccerà al balcone per dirmi col megafono che lo Spirito universale è lui, o da sinistra, un altro dittatore, affacciandosi a un altro balcone, mi griderà che la Società è lui, e tutti e due questi uomini-simboli avranno, come testimoni della verità di ciò che asseriscono, eserciti di poliziotti armati, il conflitto fra individuo e universale assumerà un altro aspetto. Siamo tornati davanti ai mostri, perché nulla è più mostruoso di una parte di me stesso, quale può essere il mio sentimento dell’universale o il mio senso dell’umanità, la quale diventi un’altra persona, a me ostile, armata di tutto punto, non solo delle armi che porta addosso, ma di tutte quelle che impugnano i suoi accoliti. Mi si obietterà che anche il mio sentimento della Giustizia può alienarsi da me, diventando la Polizia e la Legge. Ma qui il conflitto si svolge in un campo molto ristretto: è l’urto fra quello che vorrei fare e quello che mi è concesso di fare. La Legge ha su di me un’azione d’impedimento, è un correttivo: si limita a limitare la mia attività. Non vi è nulla di mostruoso dunque che essa sia rappresentata da una forza a me esterna o addirittura da uomini armati. Nei regimi totalitari, invece, la forza a me esterna, e spesso a me ostile, si assume il compito, non di limitar la mia attività, ma di svilupparla. Il mostruoso consiste nei miei diritti. Il potere dello Stato si asside al centro della mia ispirazione, vuol diventare la mia stessa creatività, rimanendo però armato fino ai denti e pronto a buttarmi in prigione. Il mio sentimento dell’universale, il mio senso dell’umanità, per effetto di una dissociazione mentale, dovuta a una malattia della personalità inoculatami con la violenza, è diventata Lui, Lui in lettere maiuscole,il Dittatore. Perché tutti gli uomini indistintamente non respingono subito con ripugnanza una simile assurdità? Secondo me la risposta la si trova nella scarsa vitalità di cui dispone la nostra epoca. La vitalità di un uomo può assumere una forma così poco indipendente e individuale da riuscire veramente a moltiplicarsi a contatto con la vitalità di altri uomini. Udire il proprio passo nel rumore generale di altre migliaia di passi esalta come se quel fragore venisse tutto dal nostro piede. Ci si sente elevati alla massima potenza proprio nel momento in cui non si conta più nulla… Quella sottrazione, che si opera immediatamente quando a una persona che fa una cosa se ne aggiungono altre centomila che fanno meccanicamente la stessa cosa, viene chiamata somma. Chiamare somma una sottrazione è l’equivoco di cui si fanno forti i deboli. Ogni persona s’inebria dell’altra. Il numero di coloro che fanno lo stesso gesto, che dicono il sì o il no che dico io, tanto più è alto e tanto più dà alla testa. È il tentativo di raggiungere l’universale attraverso la via sbagliata, il tentativo degli stupidi e dei derelitti. Chi di noi non vorrebbe parlare per l’umanità intera? Ma l’Universale, come tutti sanno, o almeno sapevano prima di quest’epoca di attiva ignoranza (ignoranza che non solo vuole ignorare, ma anche dimenticare), sceglie sempre per venire alla luce la via più stretta, quella del particolare. Attraverso il particolarissimo dolore del solitario Leopardi, forse nel momento in cui egli è più solo, e la sua sofferenza più minutamente determinata, arriva, con voce comprensibile da tutti, il dolore universale. Ma lo stupido, che è sempre un po’ generico, e ha mai nulla di veramente particolare, ed è sempre pronto a trovare dei sosia, come farà a provare quella ebbrezza, quella felicità che ci viene data da un valore universale quando penetra nella nostra mente? Una volta egli cercava di compiere qualcosa di estremamente arduo nel campo morale. La virtù è alla portata di tutti. Ma oggi la virtù è disprezzata e lo stupido è diventato orgoglioso in seguito alle piaggerie che ha ricevuto dai politici. Cosa farà dunque lo stupido per provare l’ebbrezza del genio? Farà massa. Così, urlando lo stesso urlo insieme a centomila altri, crederà che l’umanità intera parli dalla sua bocca spalancata. Egli si sentirà non uno (per usare il linguaggio di certi letterati sofistici), ma tutti quelli che sono nella piazza, come il genio non si sentirà più lui, ma tutta l’umanità quando produce qualcosa di universale. Come il genio. Ma che triste scimmiottatura! La somiglianza è meno che apparente. L’uomo-massa, come ormai è chiaro a tutti, non solo non è il genio, ma è quanto di più diverso e lontano si possa immaginare dal genio. E il suo contrario. Dopo queste esaltazioni collettive, la personalità rimane infatti diminuita, come se, invece di un’esperienza, avesse avuto un’amnesia. Che cosa ha dimenticato completamente nell’orgia collettiva? Non si capisce bene. Ma quello che ha dimenticato per sempre serviva senza dubbio alla sua capacità creativa e alla formazione della sua dignità. Ho detto che tutto questo è dovuto alla mancanza di vitalità degli stupidi e dei derelitti. Chi è lo stupido? È l’uomo privo di vitalità mentale, d’impulsi fantastici e di felicità creativa. Lo chiameremmo semplicemente uomo comune, se la sua volontà di cimentarsi a tutti i costi con l’universale, e di raggiungerlo attraverso la via sbagliata, non gli facesse piovere improvvisamente sul volto il colore della stupidità. Chi è invece il derelitto? È l’uomo privo di vitalità per mancanza di calorie. E il povero senza pane e senza tetto, è il lavoratore disoccupato o mal retribuito. Quest’ultimo non vuole raggiungere l’universale in un senso estetico, ma in quello assai più serio ed elementare che porta il nome di vita. Non vuole avere le gioie dell’artista, ma le condizioni materiali dell’uomo. Il calore che egli cerca facendo massa è quello assai semplice delle calorie che gli occorrono. Bisogna saper distinguere fra la categoria degli stupidi e quella dei derelitti. La seconda categoria rende seria e difficilmente condannabile l’aspirazione alla dittatura. Secondo me, le società occidentali, per difendersi dai pericoli del totalitarismo, non devono mai avere, fra coloro che, mancando di vitalità, aspirano alle orgie e alle eccitazioni collettive, i derelitti. Questa è una categoria che rende difficile e impacciata la difesa della libertà di pensiero. Quanto agli stupidi, bisogna farli passare dallo stato di mezza cultura, che è peggiore dell’ignoranza, a quello di cultura vera e propria. Bisogna che gli uomini di pensiero si rivolgano agli stupidi, mentre i politici risolvono i problemi dei derelitti.

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