In attesa di vedere il prossimo governo, è opportuno capire
cosa accade sul fronte opposto. Le preannunciate dimissioni di Enrico Letta
hanno avuto il merito di aprire una discussione dentro e fuori il Pd, e il
demerito di aver spinto enne soggetti, più o meno titolati, a lanciare o a far
lanciare la loro candidatura alla segreteria del partito, finendo per credere e
far credere che il problema del Pd sia solo una questione di leadership.
In realtà, ad essere in crisi, e non solo in Italia, è
l’intera sinistra, che da tempo ha perso la vecchia ragion d’essere e le
relative rappresentanze sociali, senza averne trovate di nuove. I motivi sono
tanti, e non tutta la responsabilità fa capo alle scelte fatte (o non fatte).
Ma certo, è che la colpa della sinistra sta nel fatto di non essere stata
capace di leggere e di trovare delle risposte. La sinistra ha elaborato una
“cultura del biasimo” che declina in modo opprimente il decalogo di ciò che non
si può fare e dire, codici astratti – e dunque confliggenti con la vita vera che Simone Weil chiamava “le finte
purificazioni, che servono a farti sentire migliore degli altri”. Il
politicamente corretto che è tutt’altra cosa dei doveri intesi da Mazzini ed è il contrario della meritocrazia, allontana le masse e i giovani, mentre attrae
la borghesia, spesso improduttiva se non parassitaria, del tutto minoritaria.
Certo, poi ci sono gli errori più squisitamente politici.
Per esempio, aver creduto alla favola maggioritaria, che è stata addirittura
posta da Walter Veltroni alla base del nascente Pd (“partito a vocazione
maggioritaria”). L’essere transitati dal marxismo eretto a ideologia
totalizzante al liberismo nella versione più scolastica e acritica, senza
fermarsi alla casella della cultura keynesiana, per poi rinculare verso la
peggiore delle sponde possibili, il populismo, concedendosi ad esso in tutte le
sue declinazioni, da quella economica (i bonus e tutte le varie forme di spesa
pubblica) a quella istituzionale (la riduzione del numero dei parlamentari). Il
non essersi mai scrollato di dosso, quasi fosse una seconda pelle, quel
giustizialismo usato dal 1992 in poi per scalzare il potere dominante e
sostituirlo. Tutte questioni su cui il dibattito è stato flebile e marginale,
per lasciare viceversa campo libero anche e forse soprattutto all’interno del
partito, a la cosiddetta “vocazione governista”. Si è detto, cioè, che il Pd
avrebbe eretto a sua vera e unificante ideologia il potere, come se la politica
non fosse lo strumento per il raggiungimento del potere e ci si dovesse
appagare della semplice testimonianza e
avesse piegato tutte le sue politiche all’obiettivo di essere al governo. Ora,
è vero che il Pd è stato molto al governo, ma credo che ciò che più conta è
come c’è stato, quali politiche ha promosso e realizzato. E quali alleanze ha
stretto, a questo fine. Ed è qui che casca l’asino. Perché nella Seconda Repubblica
ha contribuito a costruire, esattamente come Silvio Berlusconi sul fronte
opposto, un bipolarismo malato, in nome del quale e in virtù delle leggi
elettorali maggioritarie che lo hanno sorretto – si sono costruite maggioranze
eterogenee e posticce, buone per vincere le elezioni ma pessime per governare.
Idea bacata che dal 2011 in poi, a parte i momenti di unità nazionale, peraltro
passaggi obbligati dalle circostanze anziché frutto di scelte, ha spinto il Pd
verso l’idea di recuperare l’anti-politica nelle sue varie forme, a cominciare
da quella grillina.
E qui siamo all’errore degli errori: elevare Giuseppe Conte,
l’avvocato del popolo, a fortissimo punto di riferimento di tutte le forze
progressiste. Una scelta pensata dall’ideologo Goffredo Bettini, fatta propria
da Nicola Zingaretti e poi accantonata da Enrico Letta, peraltro incapace di
essere conseguente e costruire un’alternativa. Scelta che ora si riaffaccia
alla ribalta prepotentemente dopo l’esito del voto del 25 settembre, con alcune
componenti del Pd e diversi interlocutori esterni che spingono per la nascita di
una “cosa progressista” che leghi indissolubilmente i 5stelle e il Pd e tutto
ciò che sta alla sua sinistra. Insomma, quello che doveva essere il “campo
largo” e che non è stato.
Ed è proprio da qui che il Pd dovrebbe ripartire. Non per
farla propria, ma per prendere atto che essa non è politicamente e
culturalmente compatibile con l’opzione “riformista”, che è propria di un’altra
parte del partito. E decidersi a dividere ciò che posticciamente era stato a
suo tempo unito. Da una parte un partito massimalista alla Jean-Luc Mélenchon,
laburista stile Jeremy Corbin, con dentro anche Conte e la pattuglia del Fatto
Quotidiano, il duo Fratoianni-Bonelli, Maurizio Landini e Michele Santoro, il
professor Tomaso Montanari e il professionista dell’antimafia Roberto Saviano.
Dall’altra, un partito riformista, magari con un’anima più socialista o
liberal-socialista e una più marcatamente liberal-democratica, pronta a
dialogare con il duo Calenda-Renzi, che recuperi Emma Bonino e il mondo
radicale.
Insomma, per salvare la sinistra, anzi le due sinistre,
bisogna dichiarare definitivamente fallito l’esperimento veltroniano di mettere
insieme i post-comunisti e gli ex democristiani di sinistra, più una spruzzata
di laici, e di conseguenza sciogliere il Pd. Altro che cambiare segretario,
magari ricorrendo ancora una volta al plebiscitarismo delle primarie, e
procedere al restyling di nome e marchio, quasi fosse un prodotto da rilanciare
sul mercato. Altro che sperare di far bene per un po’ all’opposizione. Altro
che “apriamo le finestre” e facciamo entrare forze fresche o aggrapparsi ad un
congresso rifondativo per “andar oltre” senza dire cosa ciò significhi. Il tema
non è ritrovare l’unità che non c’è mai stata, ma consacrare le
diversità, senza più ambiguità e ipocrisie.
In vista della certa spaccatura del destra-centro. Il
momento in cui si manifesterà richiederà sforzi di fantasia per assicurare un
governo decente al Paese.
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