1. Introduzione
Una delle principali caratteristiche che connota il costituzionalismo è
la ricerca di una soluzione ad una problematica paradossale: costruire un
sistema giuridico che consenta la pacifica coesistenza tra tutti i cittadini garantendo loro la libertà di scegliere i diversi modi attraverso cui perseguire
la felicità nel riconoscimento della propria identità. In questa prospettiva, il
principale obiettivo del costituzionalismo è quello di fissare all’interno di un
patto costituzionale le regole necessarie «to make it possible to obtain agreement where agreement is necessary, and to make it unnecessary to obtain
agreement where agreement is impossible» (Sustein 2018, 8). Numerose sono
le forze e gli eventi che costantemente mettono alla prova la tenuta delle democrazie liberali. Tra essi, uno dei più discussi è il ritorno sulla scena pubblica
dei populismi, in particolare, quelli di matrice nazionalista/sovranista. Questo
contributo si inserisce nel ricco panorama di studi che si sono occupati di tale
fenomeno ma lo fa seguendo un percorso che ha come prospettiva di lettura
il tema identitario.
Un tempo, il tema delle identità era sostanzialmente demandato all’appartenenza dei cittadini ad una data nazione, messa in discussione dalla globalizzazione, dall’emergenza migratoria, dal crescente pluralismo e, in generale,
dall’avvento della post-modernità. Ma il bisogno di identità rimane un tema
ineludibile che trova oggi canale di espressione, assumendo gli accenti dell’individualismo liberale, nel fenomeno delle identity politics alle quali si connette
il diffondersi di nuovi populismi/nazionalismi, sotto il cui peso l’accordo costituzionale che governa le nostre società rischia di implodere.
2. L’alba e il tramonto dell’identità nazionale
In un celebre volume pubblicato nel 1983, Benedict Anderson sosteneva
che «i termini di nazionalità, di nazionalismo, o di nation-ness [...] sono manufatti culturali di tipo particolare» (Anderson 2016, 9). Tale approccio si poneva
in contrasto con l’impostazione tradizionale per cui, mentre il termine nazionalismo sarebbe apparso sulla scena europea alla fine del ’700 per indicare
un’ideologia politica volta alla liberazione di popoli oppressi, l’idea di nazione
rappresenterebbe un fenomeno sociale antico, primordiale, radicato nella
triade romantica herderiana Ein Volk, ein Land, eine Sprache, descrivendo
«il senso immediato e spontaneo dell’appartenenza di più individui ad una
comunità omogenea» (Longo 2018, 7).
Assumendo una lettura essenzialista, l’epoca romantica ha così attribuito
all’idea di nazione una sorta di eternità concettuale la cui coscienza, assopitasi
nel corso del tempo, chiedeva di essere risvegliata. Il risveglio dell’identità
nazionale del popolo costituirebbe, quindi, il nesso logico che ha legittimato
l’insorgere dei nazionalismi ottocenteschi. Il termine Risorgimento, ad esempio, descrive bene tale attitudine a ridestare nella coscienza sociale degli
abitanti della nostra penisola «il pensiero d’amore, il senso di comunione che
stringe in uno tutti i figli di quel territorio» (Mazzini 1860), necessario al fine
di costituire uno Stato italiano finalmente unitario, indipendente e sovrano.
Ontologicamente, nazione e nazionalismo sarebbero pertanto due termini
separati che si ricongiungono sul piano teleologico, dal momento che la loro
interazione serve a giustificare l’azione di movimenti politici nazionalistici
nati a partire dal risveglio dell’identità nazionale del popolo e a favorire, attraverso il principio di autodeterminazione, la creazione di nuove comunità
politiche (o Stati) nazionali (Miscevic 2018).
L’opera di Anderson si pone con occhio critico nei confronti di tale
impostazione e, sfidandone direttamente l’assunto essenzialista, definisce
la nazione come «una comunità politica immaginata, e immaginata come
intrinsecamente insieme limitata e sovrana». In primo luogo, infatti, le nazioni sono immaginate «in quanto gli abitanti della più piccola nazione non
conosceranno mai la maggior parte dei loro compatrioti, né li incontreranno,
né ne sentiranno mai parlare, eppure nella mente di ognuno vive l’immagine
del loro essere comunità» (Anderson 2016, 10). A differenza di altre comunità naturali come la famiglia o le antiche tribù, le nazioni non si aggregano
attorno ad un legame di sangue o in ragione di una conoscenza diretta degli
appartenenti alla comunità, ma immaginando «un profondo e orizzontale
cameratismo» capace di tenere insieme soggetti tra loro finanche molto
diversi. Per questo scopo, la nazione è immaginata come limitata in quanto
territorialmente circoscritta da confini geografici e sovrana perché nata per
sostituire la «legittimità del regno dinastico, gerarchico e di diritto divino»
(Anderson 2016, 11). Immaginare una comunità politica ideale era pertanto
essenziale per sostituire la spiritualità antica con una nuova sacralità, ossia per
favorire l’avvicendarsi dell’antica legittimazione del potere come proveniente
da Dio con una nuova fonte di esercizio della sovranità radicata sul comune
sentimento patriottico del popolo.
Il pensiero di Anderson si pone in continuità con le critiche ideali al
nazionalismo che, soprattutto a seguito delle due guerre mondiali, avevano
animato il dibattito politico europeo. A partire dagli anni ’50, infatti, pensatori liberali e marxisti avevano individuato nei nazionalismi, e specialmente
in quello tedesco, l’origine degli orrori della Seconda guerra, sostenendo che
l’indipendenza delle nazioni non potesse più essere riconosciuta come base
del nuovo ordine internazionale. Pur ponendosi nel solco di tali critiche, il
lavoro di Anderson affronta però il problema del nazionalismo prendendo
sul serio la triade herderiana e mettendone in dubbio la consistenza pratica
attraverso una meticolosa indagine storico-sociologica. Nella sua ricerca,
Anderson mostra come spesso i nazionalismi si siano in realtà sviluppati
eludendo tali elementi fondativi e aggregando in una nazione comune popoli
di lingua diversa (come avvenuto in Svizzera) o imponendo loro una lingua
parlata da una minoranza della popolazione (come in Ungheria) o, persino,
aggregando territori tra loro disomogenei (come documenta il processo di
unificazione indonesiana). In sintesi, quindi, in questo consiste la «mossa del
cavallo» di Anderson: documentando l’esistenza di nazioni «che non condividono né la lingua, né il popolo e, a volte, nemmeno la terra» (d’Eramo 2016,
IX), egli costringe a ripensare ai fondamenti dei termini nazione/nazionalismo
concludendo che, essendo gli elementi fondativi della nazione immaginati, la
sua essenza non può che essere il prodotto di artefatti culturali finalizzati a
perseguire uno scopo politico.
La diffusione della teoria di Anderson è legata a diverse ragioni. Innanzitutto, sotto il profilo teorico, essa approfondisce le critiche di Gellner e Renan
all’essenzialismo quasi metafisico con cui si era soliti descrivere le nazioni
come luogo di radicamento di identità e tradizioni comuni. Per Gellner, ad
esempio, «il nazionalismo non è il risveglio delle nazioni all’autoconsapevolezza: piuttosto inventa le nazioni dove esse non esistono» (Gellner 1964, 169)
mentre per Renan «l’essenza di una nazione è che tutti gli individui abbiano
molte cose in comune e che tutti abbiano dimenticato qualche cosa» (Renan
1882, 4). In sintesi, lo scopo di tali teorie era quello di svelare l’inconsistenza
storica dei nazionalismi, che vengono invece descritti come patologie dello
sviluppo della storia moderna.
Ma, in modo ancor più decisivo, tale teoria deve la sua fortuna al momento storico-politico in cui è stata pubblicata perché, nel pieno della globalizzazione e a cavallo con la fine della Guerra fredda, ha fornito ai politologi
un’efficace ricostruzione storica degli eventi che stavano verificandosi. Come noto, infatti, la caduta del muro di Berlino si è scontrata frontalmente con le
ideologie nazionaliste, mentre lo sviluppo del mercato libero in tutto il mondo
ha favorito l’instaurarsi di nuove relazioni tra diverse nazioni e culture. In
prospettiva costituzionale, la globalizzazione ha così impattato direttamente
sulla sovranità degli Stati (Morrone 2017): nuove forze globali hanno messo a
rischio la capacità dei governi di controllare le proprie economie e le proprie
società, favorendo al contempo lo sviluppo di sistemi normativi internazionali
e sovranazionali che hanno contribuito ad erodere non solo il dogma giuridico
della sovranità, ma anche l’essenza del concetto di nazione e/o di identità
nazionale.
Questo (apparente) tramonto delle nazioni intese come fulcro delle
società giuridiche e politiche è stato salutato con entusiasmo da numerosi
pensatori e filosofi della politica. Fukuyama, ad esempio, ha celebrato la
vittoria della democrazia liberale definendola come «il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità», perché «sostituisce il desiderio irrazionale
di essere riconosciuto come più grande degli altri con il desiderio razionale
di venire riconosciuto come eguale» (Fukuyama 1992, 9-18). Dal canto suo,
Beck ha promosso l’ideale cosmopolita come «una concezione metodologica
che aiuta a superare il nazionalismo metodico e a costruire un sistema di
riferimento adatto ad analizzare i nuovi conflitti sociali, le nuove dinamiche
e le nuove strutture della seconda modernità» sostenendo che mentre «la
prospettiva nazionale è una immaginazione monologica che esclude l’alterità
dell’altro», la prospettiva cosmopolitica «è una immaginazione alternativa
[...] che include l’alterità dell’altro» e «pone la negoziazione delle esperienze
culturali contraddittorie al centro delle attività politica, economica, scientifica
e sociale» (Beck 2003, 190).
Per essere chiari, il cosmopolitismo non è un’idea politica nuova ma un
pensiero antico, di cui si trova traccia già negli scritti di Diogene il Cinico che,
«interrogato sulla sua patria, rispose “cittadino del mondo”» (Lizza 2014, 40).
Il termine ha però assunto caratteristiche più prettamente politiche a partire
dal secolo dei lumi per sostenere la creazione di un ordine universale fondato
sulla Ragione comune e contrapposto agli egoismi delle nazioni. Anche in
passato, dunque, la teoria del cosmopolitismo fu utilizzata per promuovere la
nascita di una futura lega delle nazioni basata sulla costruzione di «un diritto
universale» inteso come «il complemento necessario del codice non scritto
di un giure pubblico delle genti, sia interno che internazionale» e rivolto al
perseguimento «della pace perpetua cui solo in tal guisa potremmo man mano
approssimarci» (Kant 1883).
Questo antico e utopistico ideale ha potuto realizzarsi solo grazie alle
condizioni pratiche sviluppate dall’esplosione della globalizzazione; l’idea
cosmopolita è così divenuta lo strumento privilegiato per sostenere la tesi
internazionalistica del superamento delle nazioni e la nascita di organismi sovranazionali. Seguendo tale impostazione, pensatori come Beck o Appiah
hanno pertanto svelato tutta la strutturale inadeguatezza del concetto di
identità nazionale, ritenendo che mentre la globalizzazione favorisce il fiorire
di identità multiple e il diffondersi di diversi stili di vita transnazionali, la nazione come luogo di radicamento delle nostre comunità ha il limite di imprigionare le identità degli individui in singoli e artificiali spazi territorialmente
e culturalmente delimitati (Appiah 2007).
STUDIO CONDOTTO E PUBBLICATO DA Luca Pietro Vanoni e Benedetta Vimercati
Qualche giorno fa delle ragazzine, protestavano per l'aborto e hanno cacciato la Boldrini. Perché non si sentivano da lei rappresentate. Boldrini a parte, quello che sciocca è che chi protesta, lo fa contro un governo che non esiste ancora, su una cosa che la Meloni non ha mai detto (di voler cambiare la legge 194) e soprattutto...sanno i vari motivi per cui si abortisce? O pensano solo ad abortire per nascondere la gravidanza. Si può esser libere di abortire anche se non si accetta un nascituro che possa sconvolgere la vita. Perché malformato, perché con problemi mentali, perché non riuscirebbe a vivere una volta in vita. Ma si abortisce se lo si vuole in due...qui sembra solo un diritto delle donne, e si mette da parte il volere degli uomini, che hanno contribuito alla copulazione. Ma quello che è sconvolgente è che si manifesta per la morte, e poi sulle restrizioni delle proprie vite, tutte e tutti ad ubbidire... Pasolini affermava che la rivoluzione del 68 avrebbe fatto più d
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