Ogni volta che Banksy fa qualcosa, l'attenzione dei media e del pubblico sale come per pochissimi altri artisti. Ma Banksy è davvero un grande artista?
Gira da qualche tempo una mostra su Banksy che invita i visitatori a decidere se l’anonimo street artist di Bristol sia un genio o un vandalo. Il discorso vale per tutte le mostre su Banksy che furoreggiano negli ultimi tempi e che si diffondono a macchia d’olio in tutto il mondo. Sempre lo stesso cliché: sbrodolate di serigrafie da collezioni private, manifesti con le solite due o tre icone, la bambina col palloncino o il Flower thrower, per accalappiare il pubblico, totale assenza d’opere d’altri artisti per garantire un minimo contesto, celebrazioni acritiche e prive di contraddittorio. E musei che, quando si parla di Banksy, spesso sospendono temporaneamente la loro missione, che se si parla d’arte contemporanea dovrebbe consistere nel leggere criticamente e ordinare le produzioni del presente, e al contrario fanno tutto quello che un museo non dovrebbe fare, ovvero si limitano ad assecondare il gusto imperante, a dare in pasto al pubblico quello che il pubblico vuole e s’aspetta, a unirsi al coro d’elogi sperticati che esaltano un simpatico vignettista diventato genio per acclamazione popolare.
Quello che però sfugge ai più è che la critica e la storia dell’arte non si fanno con l’applausometro, e che un qualsiasi fenomeno artistico dovrebbe esser studiato in relazione al suo contesto e a ciò che l’ha preceduto. Così, se si volesse per un attimo allargare lo sguardo e cercare di comprendere che cos’è realmente Banksy, allora qualche solida certezza potrebbe cominciare a vacillare. Gli innumerevoli estimatori di Banksy si mantengono su posizioni simili a quelle che Tomaso Montanari esprimeva in un articolo pubblicato sul Venerdì di Repubblica il 30 novembre del 2018: “al netto della nuvola di fake news che lo circonda, dei suoi ambigui rapporti con il mercato e della geniale regia del suo anonimato, è indubbio che Banksy sia un grande artista dei nostri giorni. Probabilmente il più capace di tradurre in immagini il desiderio di rivoluzione: il bisogno di rivoltare dalle fondamenta un mondo mostruosamente ingiusto”. Il clamoroso qui pro quo in cui cadono pressoché tutti coloro che ritengono Banksy uno dei più significativi artisti della contemporaneità sta nello scambiare per grandezza la sua estrema popolarità, sempre ammesso che ritenere Banksy un “grande artista” significhi intendere che abbia prodotto qualcosa di veramente innovativo o rivoluzionario, tale da consegnare il suo nome a quello della storia dell’arte, arrivando sino a includerlo già nei manuali per le scuole (come ha fatto Irene Baldriga nel suo Dentro l’arte). Se le parole di Montanari, dal “probabilmente” in poi, fossero utilizzate per la musica invece che per l’arte, sarebbero perfette per descrivere, per esempio, un cantante come Jovanotti: l’estrema vaghezza dell’affermazione e la mancanza d’un inquadramento, del resto, pertengono più all’ambito dell’ammirazione incondizionata del fan che al distacco del critico.
Il problema però è che, se nessuno si sognerebbe d’includere Jovanotti in un canone musicale che contempli anche Vivaldi, Robert Johnson e i Velvet Underground, per Banksy è perfettamente normale che venga impunemente accostato a Raffaello, a Rembrandt o a Warhol, solo per citare tre artisti a fianco dei quali lo street artist di Bristol è stato realmente esposto. Normale, e totalmente comprensibile da parte dei musei, perché esporre opere di Banksy garantisce un ritorno di pubblico immediato e che non comporta un impegno gravoso. Occorre però anche sottolineare che non s’accusa Banksy d’essere meno artista di altri solo perché il suo è un lavoro meramente epigonale e neppure perché è un artista perennemente in ritardo, lo sberleffo alla regina Elisabetta vent’anni dopo i Sex Pistols, i Kissing Cops cinque anni dopo George Michael, le scimmie in Parlamento cent’anni dopo Gabriel von Max, per citarne alcuni visto che il ritardo nell’arte è del tutto legittimo e non è una colpa. Piuttosto, Banksy è un “buffone noioso e culturalmente irrilevante”, come lo ha definito Jason Farago sul New York Times, non solo perché la sua denuncia sociale è poco credibile (di questo lo accusava Farago, contrapponendo al suo esempio quello di Maurizio Cattelan che con la sua banana ha criticato il sistema dall’interno: si pensi solo alla pagliacciata della tela di Banksy distrutta da Sotheby’s), ma anche perché le sue opere sono estremamente banali. O “del tutto convenzionali”, se si vuol adoperare l’aggettivo che gli è stato affibbiato da Jerry Saltz.
Il livello di strumentalizzazione politica della sinistra italiana ha raggiunto picchi verso il basso così talmente gravi da fare indurre a una riflessione sul livello di ignoranza giovanile, intesa come disinformazione storica, nei confronti della Politica internazionale. Premettendo che ognuno è libero di pensare e manifestare per qualunque causa si ritenga giusta, occorre avere sott’occhio due cenni storici dell’origine della terra contesa sin dalla notte dei tempi. Una interessante spiegazione sulla città di Gaza della Prof.ssa Daniela Santus, docente del dipartimento di letteratura e lingue straniere e Cultura Moderna, dell’Università di Torino, afferma che Gaza non nasce come città palestinese o islamica. Da un punto di vista storico sappiamo che il Faraone Thutmose III, alla guida delle sue truppe, nel 1457 a.C., proprio a Gaza, sceglie di celebrare il ventitreesimo anniversario della sua ascesa al trono. L’islam nascerà quasi 2100 anni dopo che Gaza aveva ospitato i festeggi
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