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AMAZZONIA ED HONG KONG. DUE PESI DIVERSI NEL MONDO

Da almeno trent’anni la minaccia della riduzione della foresta pluviale amazzonica è un cavallo di battaglia dell’ideologia ambientalista, che la addita come causa dell’effetto serra, con annesso fatale riscaldamento globale dell’intero pianeta. Quindi in versione apocalittica. Intendiamoci, il problema esiste ed è serio. Non tanto per le emissioni di anidride carbonica e per l’impoverimento dell’ossigeno e il collegamento tra emissioni di CO2 e mutamento climatico è quanto meno molto dubbio; bensì perché la riduzione delle foreste vergini danneggia drammaticamente la biodiversità, che è una risorsa essenziale all’habitat umano. Ma se si affrontano i problemi ambientali in modo razionale e non ideologico, si deve concludere che la soluzione ad essi può venire soltanto dall’azione combinata dello sviluppo economico e della tecnologia. Applicando questo criterio, la tendenza delle popolazioni locali ad abbattere selvaggiamente aree di vegetazione pluviale per utilizzare il territorio a scopo imprenditoriale e speculativo potrà essere arginata non mettendo la foresta sotto vetro e trasformandola in un santuario, ma piuttosto modernizzando e tecnologizzando i metodi ed i sistemi di agricoltura e allevamento, in modo da rendere produttivo e ricco il territorio circostante. Al contrario, l’ambientalismo ideologizzato e anti-sviluppista dà della questione una rappresentazione mitologizzata, fondata sull’assunto per cui la presenza degli insediamenti umani, la crescita economica e quella demografica sono eventi nefasti, dalle conseguenze catastrofiche, e si dovrebbe restaurare la “purezza” originaria, limitare le pretese della civilizzazione. Ma negli ultimi tempi abbiamo assistito ad un’evoluzione ulteriore dell’ecologismo antiumanistico. Grazie al movimento lanciato dalla giovane Greta Thunberg esso si è ormai infatti strutturalmente fuso, con le altre forme assunte dal progressismo relativistico occidentale contemporaneo: il multiculturalismo globalista “no border” e il “dirittismo” biopolitico. Il tutto in nome della lotta contro gli “uomini neri”: i cattivisssimi sovranisti, oggi al potere in alcune grandi democrazie occidentali, dipinti come i perfidi nemici della civiltà contro cui coalizzare tutte le forze del bene. E così in questi giorni il grande mito della foresta amazzonica è stato richiamato in servizio dalla grande rete dei media e delle organizzazioni politiche progressiste internazionali allo scopo specifico di attaccare uno tra i leader conservatori/sovranisti più odiati dal mainstream, il presidente brasiliano Bolsonaro. Lancio dopo lancio, notizia dopo notizia, post dopo post, è stata costruita una gigantesca fake news: la foresta amazzonica sta bruciando in un gigantesco incendio senza precedenti, e il colpevole di questo incendio è, manco a dirlo, Bolsonaro. E giù contro il presidente verdeoro che a causa delle “sue politiche” (in sostanza per aver tagliato i finanziamenti alle solite ong che speculavano sulla foresta come da noi sulla tratta degli immigrati), o addirittura per favorire sporchi interessi speculativi di proprietari terrieri e allevatori, avrebbe provocato l’apocalisse. Poi, approfondendo un minimo la valanga emotiva di preghiere e invettive, emergono dati un po’ diversi da quelli che la campagna globale vorrebbe far credere. Innanzitutto, gli incendi stagionali della foresta amazzonica, secondo tutte le più serie rilevazioni statistiche, non sono affatto finora maggiori rispetto alla media degli ultimi vent’anni. Anzi, il picco dei fuochi si era registrato tra il 2005 e il 2006, quando era presidente il progressista Lula da Silva. Poi i territori interessati, come si vede dalle immagini satellitari, non sono soltanto quelli brasiliani, ma una rilevante percentuale delle aree incendiate si trova in Paraguay, Bolivia, Perù. Quindi, secondo la logica degli attuali indignati bisogna mettere sotto accusa anche i governanti di quei paesi, o loro sono, chissà perché, innocenti? Infine, gran parte delle foto postate sui social e su molti siti di informazione sono false, risalgono ad altri periodi o sono relative ad altri luoghi. Ma si sa, quando la macchina gigantesca della propaganda politicalcorretta – digitale e non – pianifica la demonizzazione di un leader politico ad essa sgradito non va troppo per il sottile, e si aspetta che il gonzo progressista globale abbocchi subito, appena si evoca l’immagine del “mostro”, ed emetta unanimemente la sua condanna. Per il progressista medio occidentale, infatti, un uomo politico come Jair Bolsonaro non può che essere colpevole a prescindere. Perché è fautore di una politica di ferma repressione contro la droga e il crimine. Perché è a favore del mercato e della crescita, non coprendosi il capo di cenere, come pure l’altrettanto odiato Trump, in nome del totem della “sostenibilità”. E – colpa più grave e imperdonabile di tutte – ovviamente perché è cristiano, è contro l’aborto e difende la famiglia naturale. Un nemico perfetto. Per demolire il quale qualsiasi bugia è permessa. Se da un lato vi è la sensibilizzazione verso l’Amazzonia, dall’altro vi è il silenzio più profondo per Hong Kong. La crisi va avanti da due mesi e mezzo, con manifestazioni e proteste che si tengono ogni weekend e che incontrano la repressione sempre più violenta della polizia, la condanna del governo locale e la minaccia di un intervento militare cinese. Quello che sta accadendo sta attirando parecchie attenzioni per la particolare storia di Hong Kong, che fino al 1997 fu controllata dal Regno Unito e governata secondo le sue leggi, e poi passò sotto il controllo della Cina, che cominciò fin da subito a essere molto presente nella vita politica del territorio. Un movimento di protesta si era già manifestato negli ultimi anni, ma oggi sembra essere diventato più determinato, organizzato e bellicoso. Hong Kong non è una piena democrazia: in una certa misura è sottoposta al rigido monopartitismo cinese. Alle elezioni possono presentarsi molti partiti, ma il capo del governo – che si chiama Capo dell’esecutivo e attualmente è Carrie Lam – è scelto dal ristretto numero di persone che compongono il Comitato elettorale. Questo è formato da 1.200 persone, scelte con un meccanismo molto complesso che si basa sull’assegnazione di un certo numero di rappresentanti a ordini professionali e settori economici della società, ed è pesantemente controllato dal governo cinese. Il sistema giudiziario è indipendente e si basa sulla common law, il principio del diritto consuetudinario dei paesi anglosassoni. La Legge Fondamentale di Hong Kong, scritta dopo il passaggio delle consegne tra Regno Unito e Cina, stabilisce anche che la città abbia “un alto grado di autonomia” in tutti i campi eccetto la politica estera e la difesa. Hong Kong era considerata la cugina ricca, prospera e all’avanguardia della Cina e negli anni Ottanta e Novanta era vista come un modello per molti abitanti della Cina continentale. Quando i due paesi si riunirono, molti cinesi sperarono che la Cina diventasse un po’ più simile a Hong Kong, ma poi l’economia cinese cominciò a crescere a ritmi molto elevati, e le cose cambiarono. Oggi i rapporti tra abitanti della Cina continentale e abitanti di Hong Kong non sono sempre facili, anche a causa della propaganda del regime cinese che non spiega il vero motivo delle proteste in corso da due mesi e mezzo. La Cina nel tempo ha infiltrato il sistema economico di Hong Kong e molti ricchi cinesi hanno comprato le sue case migliori. Il Partito comunista cinese ha cercato inoltre di rafforzare la sua presa anche sul sistema politico e giudiziario. Il primo luglio 2014, durante le celebrazioni per l’anniversario della restituzione di Hong Kong alla Cina, a Hong Kong venne organizzata una manifestazione per chiedere più autonomia: fu l’inizio della cosiddetta “Rivoluzione degli ombrelli”. Dietro c’era l’annuncio di una riforma del sistema elettorale: dal 2017 il Comitato elettorale vicino a Pechino avrebbe pre-approvato un massimo di tre candidati per il ruolo del Capo dell’esecutivo, che una volta eletto dalla popolazione sarebbe stato formalmente approvato dal governo centrale. Le proteste iniziarono a fine settembre come sit-in pacifici organizzati da vari enti: le organizzazioni studentesche Hong Kong Federation of Students e “Scholarism”, guidata dal 17enne Joshua Wong, che divenne il volto delle proteste, e Occupy Central, un movimento locale di disobbedienza civile che nel giugno del 2014 aveva organizzato un referendum per chiedere elezioni libere. Le nuove manifestazioni sono cominciate all’inizio di giugno e inizialmente riguardavano l’emendamento a una legge sull’estradizione che, se approvato dal Parlamento locale, avrebbe consentito di processare nella Cina continentale gli accusati di alcuni crimini gravi, come lo stupro e l’omicidio. La legge era stata proposta dopo che nel febbraio 2018 un 19enne di Hong Kong era stato accusato di aver ucciso la propria fidanzata di 20 anni durante una vacanza a Taiwan. Taiwan aveva cercato di ottenere l’estradizione del giovane, ma le leggi di Hong Kong non lo avevano permesso, cosa che sarebbe stata invece possibile con l’emendamento. Le proteste sono state organizzate sporadicamente da leader di piccoli gruppi, spesso coordinandosi su Telegram, Facebook e un sito simile a Reddit di nome LIHKG. Per questo è difficile prevenirle: può accadere che all’improvviso una strada venga occupata da centinaia di persone, che ci restano per ore. «Non c’è una struttura piramidale di comando», ha spiegato Leung al Wall Street Journal, «Ci sono snodi, come in un social network». Nell’ultima settimana in ogni caso gli scontri tra manifestanti e polizia sono già diventati più violenti. Uno dei più recenti simboli delle proteste sono le bende sull’occhio macchiate di rosso indossate da molti partecipanti alle manifestazioni: domenica scorsa una donna è stata gravemente ferita all’occhio destro da un tipo di proiettile non letale usato dalla polizia. La polizia ha ammesso che gli agenti hanno in dotazione quel genere di proiettile ma ha detto di non sapere se quello che ha colpito la donna sia stato sparato da un agente. Adesso si spara addosso ai manifestanti e nessuno sensibilizza l’altra parte del Mondo.

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